mercoledì 12 aprile 2017

AUGUSTO CONTI STUDENTE... “VIVACE”

a cura di Francesco Fiumalbi

INTRODUZIONE
Augusto Conti [San Miniato, 6 dicembre 1822 – Firenze, 6 marzo 1905] è stato un docente, letterato, filosofo, politico, e patriota. E' stato anche il primo sanminiatese a sedere sui banchi del Parlamento italiano, eletto nel collegio di San Miniato per la Camera dei Deputati alla seconda legislatura del Regno d'Italia.
In questa pagina è proposto un interessante articolo del filologo e scrittore Ermenegildo Pistelli [Camaiore, 15 febbraio 1862 – Firenze, 14 gennaio 1927], incentrato su un episodio poco conosciuto della sua giovinezza. Benché d'animo acuto e mosso da alti sentimenti, è risaputo che Augusto Conti avesse un piglio particolarmente deciso e risoluto, su cui farà leva per le sue numerose “battaglie” filosofiche, ma anche durante la battaglia – questa sì veramente combattuta con le armi – di Curtatone e Montanara, a cui prese parte come volontario.


Ritratto di Augusto Conti,
Immagine contenuta in G. Berzellotti, Due filosofi italiani,
in «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti»,
V. Serie, Vol. CXXXVI (CCXX), Roma, 1908, p. 180

QUANDO SI DICE... UN GIOVANE “VIVACE”
Durante il suo periodo universitario, presso l'ateneo pisano, Augusto Conti si rese protagonista di una vera e propria aggressione fisica, una sorta di “agguato”, nei confronti del professore Federico Del Rosso (a Pisa c'è anche una piazza a lui dedicata). Era il 1842 e il giovane sanminiatese non aveva compiuto nemmeno vent'anni. L'università era in subbuglio e la situazione era "esplosiva", per vari motivi su cui non staremo ad indugiare.
Individuato dagli organi di polizia, fu spedito in carcere. Lasciando tutti i dettagli al testo dell'articolo, c'è da dire che le conseguenze, alla fine, non furono particolarmente gravi sia per il Conti, che per gli altri studenti che avevano orchestrato manifestazioni e atteggiamenti aggressivi nei confronti dei docenti. Gli “stranieri” (ovvero i ragazzi che venivano da fuori del Granducato di Toscana) furono rimandati a casa. Anche Augusto Conti fu rispedito a San Miniato, ma con il bando perpetuo dalle università dell'intera Toscana. Tra l'altro, in tutta questa vicenda troviamo anche Dario Pini, pure lui sanminiatese, che evitò il carcere per un problema di salute.
La soluzione di tutta la vicenda fu certamente magnanima e "paterna" – vista la gravità dei fatti – ma rischiava comunque di influenzare il resto della sua vita. Il Conti, infatti, per continuare gli studi fu costretto a “emigrare” a Lucca (che fu annessa al Granducato di Toscana solamente nel 1847) dove poté frequentare la facoltà di Legge presso il “Real Liceo”, detto anche “Real Collegio”.
Insomma si tratta di una vicenda che segnerà il giovane Augusto Conti, pur senza scalfire il suo temperamento. Tutti i dettagli nell'articolo proposto di seguito.

E. Pistelli, Profili e Caratteri,
G. C. Sansoni, Firenze, 1921, frontespizio.

Di seguito è proposta la trascrizione dell'articolo di E. Pistelli, Augusto Conti studente, in Id, Profili e Caratteri, G. C. Sansoni, Firenze, 1921, pp. 3-27:

[003] AUGUSTO CONTI STUDENTE

Più di trent'anni fa, nell'Aula Magna dell'Istituto Superiore di Firenze, Augusto Conti doveva, una domenica mattina, parlare dei Missionari cattolici italiani. Ma pochi giorni prima studenti e associazioni «anticlericali» avevan domandato l'Aula per commemorare Giordano Bruno; e siccome era stata negata, vennero in massa alla conferenza del Conti, e ne nacque un pandemonio, che durò una buona mezz'ora: urli, fischi, boati. Io, che conoscevo bene il Conti, avevo una gran paura che reagisse con violenza, e Dio sa che cosa ne poteva nascere. Invece fu il solo a mantenersi calmo, e sbollite le furie lesse il suo discorso con energia di voce e di gesto. Il giorno dopo lo incontrai in Piazza del Duomo e lo fermai per dirgli: —
Professore, gli studenti non l'avevan mica con lei.... — Ma appena ebbi cominciato, mi interruppe: — Nulla nulla; non ne parliamo; ho già dimenticato; ho fatto troppo di peggio io da studente.... — Qualche altra volta ho udito da lui questa stessa allusione, sempre detta con espressione dolorosa, anzi di rimorso. Ma particolari mai, perché [004] appena gli eran chiesti mutava discorso. Si sapeva che studente a Pisa aveva bastonato un suo professore, ma nulla di più.
Quando, dopo la sua morte uscì sul Conti un libro, scritto da Augusto Alfani (01) che con lui era stato in gran familiarità, sperai di trovarci anche il racconto di quell'episodio studentesco, del quale tutti parlavano e pochi sapevano. Ma non c'erano che poche incerte parole. «Sembra» - dice - che il professor Del Rosso da vecchio si dimostrasse «ritroso a ogni idea di rinnovamento politico»; e perciò fu ordita una trama per farne giustizia. Rimessa alla sorte la scelta degli assalitori, «il primo nome a uscire dalla borsa fatale fu quello di Augusto Conti, che non indietreggiò». Andati alla casa, tre trattennero la donna di servizio, gli altri salirono e bastonarono il vecchio. Questo soltanto, e poco più. Dirò subito che anche l'Alfani era informato poco, e inesattamente. Ma quell'aggressione certo aveva fatto chiasso: dovettero occuparsene l'Università, la polizia, il governo la magistratura. Pensai dunque di cercarne notizie all'Archivio di Stato, e trovai presto e facilmente tal massa di documenti, che basterebbe a comporne un volume non inutile sulla vita della vecchia e gloriosa Università Toscana (02), che ogni anno per una ragione o per un'altra turbava i sonni anche del toscano Morfeo.
[005] Alle due e mezzo della notte tra il 15 e il 16 aprile 1842, Humbourg, governatore di Pisa, spediva a Firenze una staffetta con una grave notizia, che doveva «altamente conturbare l'animo dell'Ottimo Principe». La sera del 15 tre giovani, entrati in casa del professor Federigo Del Rosso (03), in Via Santa Caterina, l'avevano gravemente ferito alla testa a bastonate. Interrogato, aveva dichiarato di non aver riconosciuto gli aggressori; ma escludeva fossero suoi scolari, perché i suoi scolari «eran buoni e l'avevano sempre rispettato». I magistrati avevano aperto un'inchiesta, l'Università era stata chiusa d'ufficio, la truppa «pronta al bisogno che potesse sopravvenire».
A Firenze l'impressione fu viva. Che gli studenti da tempo tumultuassero dimostrassero e fischiassero, si poteva capire; ma non che bastonassero i professori, e a tradimento: bisognava metter riparo al male. Subito partirono ordini severi di far quant'era possibile «per giungere alla punizione esemplare dei colpevoli», e si mandò, a Pisa un distaccamento di cacciatori a cavallo da Livorno; ma si ordinò di riaprire l'Università perché il delitto doveva ritenersi «isolato», e non poteva «compromettere la massa degli studenti». Che però si trattasse di studenti fu subito voce comune, e probabilmente «di studenti lombardi o romagnoli». Bisognava scoprirli: [006] «cogli zecchini» — dice testualmente una di queste ufficiali — «si deve pur trovare il Giuda»; dove sorprendete il bonario governo toscano che s'augura sì di trovare una spia, ma intanto la battezza per un Giuda. Quanti erano? Si parlava di quaranta congiurati, visti all'ora del delitto all'imboccatura di Via Santa Caterina. Se questo è vero — scriveva impensierito l'Auditore di Pisa al Bologna presidente del Buon Governo — «si va incontro a un processo di rilevanza immensa». Per fortuna il Del Rosso, che nelle prime ore aveva fatto temere della vita per la gran febbre e il molto sangue perduto, pareva già fuor di pericolo; così almeno assicurava il Regnoli che lo curava.
Dopo un giorno o due, cominciano a venir fuori alcuni nomi, e subito tra i primi «Augusto Conti di San Miniato». Egli quella sera era tornato a casa in Via San Frediano, «frettoloso e ansante, con in mano un bastone di canna da zucchero». E la sera stessa altri studenti armati di bastone avevan seguito il professor Carlo Matteucci «mostrando sinistre intenzioni». Tre giorni dopo, ancora sgarbi o minacce a molti professori: a Regnoli, Obici, Bonaini, Corridi, perfino al Carmignani.
L'agitazione durava da tempo, per motivi vari. Politici, contro professori sospetti di poca simpatia per le idee liberali; personali, contro professori che paressero troppo severi. C'era stato «l'ordine sovrano» che alle lezioni «il bidello» facesse la chiama; e può immaginarsi come fosse accolto: la chiama era ed è odiosa agli studenti; fatta dal bidello, diventava odiosa e ridicola. Poco prima del caso Del Rosso, c'erano stati altri «casi», e in tutti o quasi implicato il Conti. Una sera al teatro [007] gli studenti fecero baccano contro una brutta commedia. Ne furono «esiliati dal teatro» quattro, e tra questi il Conti: tutti gli altri, naturalmente, congiurarono che nessuno studente sarebbe più andato a quelle recite. Due studenti piemontesi, Setti e Del Carretto, furono espulsi come turbolenti dal Granducato: si trovò che tra i loro amici più intimi erano Augusto Conti — e, per ricordare due nomi noti — Pietro Cironi e Alfonso Andreozzi; il quale ultimo in un rapporto poliziesco è definito «tra i più cattivi il pessimo»; e non lo crederà chi abbia conosciuto, come io l'ho conosciuto, l'avvocato Andreozzi, che era uomo d'una cultura così fine e varia, e aveva la parola più limpida e dolce di quella che scorreva dalla bocca di Nestore, e l'animo buono, e da vecchio una gran miseria dignitosamente sopportata. Poi venne «il caso Corridi» più grave, e che fu causa di quello Del Rosso. Il Corridi, professore di calcolo differenziale e integrale, ebbe a richiamare all'ordine Gaetano Terracchini di Reggio che non stava attento alla lezione. Lo studente rispose risentito, le parole si fecero grosse, e peggio fu che andato il Terracchini a casa del professore, questi ebbe la cattiva ispirazione d'accoglierlo male e dirgli che «l'affare era in mano della polizia». Per questo e altri motivi fu fatta una «lega» per una dimostrazione contro il Corridi, che riuscì tumultuosa e violenta, con grande spreco di patate e mele fradice, non senza qualche sasso. Emilia Vivaldi, rivenditrice di frutta in Piazza delle Vettovaglie, testimoniò di aver venduto a due studenti ignoti «cinque libbre di mele marce per un soldo». Il Massai, bidello dell'Università, riferì che a quello strepito «molto popolo basso accorse [008] dentro la Sapienza, e i ragazzi si occupavano a raccogliere le mele, essendovene per terra in quantità»; testimonianza di non grande rilievo, se non per indurne che forse non erano tutte marce; benché la toga del Corridi portata davanti alle autorità — con la solennità che Antonio quella di Cesare ucciso — provasse con le molte macchie giallastre che le più eran marce di certo. Naturalmente il bidello era interrogato per conoscere chi le aveva tirate, e non chi le aveva raccattate. Ma naturalmente il brav'uomo non aveva riconosciuto nessuno: «Sebbene io abbia procurato di conoscere almeno qualcuno degli assalitori, non mi è riuscito scoprirne veruno; mi è sembrato però che quel gruppo di scolari fossero forestieri». Le accuse venivan sempre con quest'antifona, un po' per salvare i toscani, che erano in casa loro, un po' perché veramente i «forestieri», e specialmente gli emiliani e romagnoli, erano più vivaci. Ma quando si venne a determinare e punire i più colpevoli, che furon sei, troviamo tra questi anche il Conti, benché non gli infliggessero che dieci giorni d'arresti in casa. Più tardi nel processo per la bastonatura, egli interrogato dovè tornare anche sulla dimostrazione contro il Corridi; e se ne leggerà volentieri la descrizione nella sua fresca parlata toscana, quasi direi dalla sua viva voce, che negli «atti» par proprio fonografata: « — Io la mattina uscii di casa quasi all'ora della fischiata. Non sapendo fischiar con la bocca, andai a comprare un fischio di coccio, e lo comprai Lungo Borgo da una donna che li vende; e poi passando di Mercato comprai quattro mele, e ne mangiai perfino tre, essendomene quindi rimasta una sola in tasca. Andai davanti [009] la Sapienza, e di fatto vidi molti giovani riuniti. Poco dopo venne il professor Corridi; ma la fischiata non fu fatta perché rimasti tutti come sorpresi; che è una naturale conseguenza delle risoluzioni avventate quali sono quelle dei giovani. Allora io dissi a molti che se la fischiata non avveniva, si dava maggior animo al Corridi, perché aveva dimostrato d'essersi accorto di qualcosa alla pallidezza del volto e con l'incertezza del passo allorché transitò fra la turba dei giovani; e quindi non facendo qualcosa avrebbe pensato che si fosse avuto paura. Così avrebbe avute maggiormente sciolte le mani per commettere nuove ingiustizie e farci esiliar tutti....» —
Qui racconta il caso del Terracchini, e poi ripiglia: «— Tornando alla fischiata, allorché il Corridi uscì dalla stanza dei professori in toga per andare a far lezione, furon fatti dei fischi da quelli che eran fuori e che dietro le avvertenze mie entrarono in Sapienza, e furon gettate delle mele. Io fischiai col fischio che avevo comprato e tirai quella mela che m'era rimasta in tasca, con la quale non mi ricordo se colpii il Corridi.... Vidi che un prete si fece avanti e alzò le braccia dicendo: Oh! vergogna!, ma fu respinto con golini e lattoni, senza che distinguessi da che parte gli venissero».
Il resto lo leggeremo tra poco. Il contegno di qualche professore non fu, dopo la indecente gazzarra, quale doveva aspettarsi. Alcuni ebbero paura: il Bonaini il giorno dopo mandò a dire che non poteva far lezione «per indisposizione
»; ma gli studenti capirono e risero alle sue spalle. Il Rosellini invece fece lezione e fu molto applaudito. Il Carmignani, «aveva cercato di redimersi» facendosi vedere a parlare familiarmente con alcuno degli [010] indiziati e burlarsi del decreto sulla chiama. Più schietto e onesto di tutti il buon Del Rosso partì da Pisa dicendo e lasciando scritto ufficialmente che non sarebbe tornato «finché l'onore dei professori non fosse vendicato e garantito»; «sdegnosa dimostrazione d'animo generoso», scrive l'Auditore (04).
L'Auditore era di parere che si dovesse chiudere l'Università almeno per quindici giorni e mandar gli studenti a casa: così «le lingue si sarebbero snodate e i padroni di casa avrebbero parlato»; altrimenti, i professori «condurranno una vita angosciosa, timida, e forse qualcuno di loro si comprometterà». E ci mancò poco non si compromettesse il Regnoli. Una mattina che faceva la sua solita lezione nel teatro anatomico, «alcuni studenti cominciarono a tossire soffiandosi anche prolungatamente il naso». Il Regnoli, che non somigliava il Bonaini, perse la pazienza, e di parola in parola finì col dire: — «Io non sono il Corridi: questo è il cadavere e questi sono i ferri». — Era troppo, e dovè poi chiedere scusa agli studenti, che lo applaudirono. Piace sempre ai giovani il coraggio. Perciò piaceva poco — e con ragione — il con [011] legno di Monsignor Boninsegni, provveditore della Università, che dava ragione a tutti e scusava tutti, ma sotto sotto con rapporti «segretissimi e confidenziali» faceva il suo mestiere poliziesco. Quando il Conti era ormai compromesso, anzi carcerato, egli informò su lui cosi: «— Questo giovane ha svegliatissimo ingegno ma nessuna volontà di applicarsi allo studio. Nei chiassi di tutto l'anno egli ha preso sempre una parte diretta, avendo sulla scolaresca un'influenza molto significante.... È generalmente riguardato come cattivo soggetto —». Lasciando il cattivo soggetto, accusa generica, falsa e direi stupida, era anche falso che il Conti non studiasse. Così a Siena i primi tre anni di Legge, come poi a Pisa, s'era fatto onore: a Siena l'Accademia dei Fisiocritici l'aveva premiato, che era studente giovanissimo, di medaglia d'argento per una sua memoria. A Pisa il Del Rosso l'aveva carissimo, e gli faceva lezione anche in casa; sicché quando il Cancelliere nei primi interrogatorii insisteva specialmente a domandargli del Conti, se l'avesse riconosciuto tra gli aggressori, «con un di quei moti spontanei che non si possono scrivere» — dice il rapporto — il professore esclamò: «— Il Conti?! Ma che! —» E da San Miniato, dove lo conoscevano meglio di monsignor Boninsegni, venne un attestato, dove il Conti è definito «giovane onestissimo, rispettoso, educato, che gode l'affetto e la stima di tutti, studioso e amante delle scienze.... incapace di commettere azione trista di qualunque genere»; e seguono le firme di trentacinque de' primi cittadini sanminiatesi, tra i quali Damiano Morali, Domenico Rondoni, il canonico Giuseppe Conti, Gaetano Gattai rettore delle scuole.
[012] Pisa aveva quasi seicento studenti e tutta la vita della città si concentrava in loro. Davan sempre da fare; ma in quei mesi dei fischi al Corridi e delle bastonate al Del Rosso, molto di più del solito. Scherzi o minacce in fogli volanti, adunanze e gite sospette, iscrizioni eterodosse sui muri, dimostrazioni al teatro, occhiatacce ai professori avversi, applausi ai professori amici (Rosellini, Montanelli, Centofanti), e così via. E la polizia raccoglieva tutto e di tutto dava conto al Buon Governo. Dopo i fischi, per esempio, fu diffuso un Avviso Teatrale in sestine:

Scrivon di Pisa che il 31 di Marzo
quelli scolari per cacciar l'inedia
rappresentasser col più grande sfarzo
una ridicolissima tragedia
a benefizio della polizia,
però r autore non si sa chi sia.

Aggiungon poi che il personaggio tragico
professore di calcolo integrale
producesse un effetto così magico
che, dall'esser tenuto in nessun cale,
salisse a un tratto in fama grande in Pisa,
facendo tutti smascellar di risa.

E seguita che il titolo era «Corrado alla ricerca degli irreperibili» ; ma poi «per certi commestibili»
che cadder sulla scena, nel programma
tragedia non fu più, ma melodramma.

[013] Poi un Avviso metereologico, per bocca di Galileo,

che sta di permanenza
seduto su una seggiola
in mezzo alla Sapienza,

anche quello sul Corridi. E qua e là sui muri la scritta ammonitrice Fermezza e Silenzio. Al teatro Lindoro geloso tirava non so a chi delle mele, e gli studenti gli facevano una dimostrazione trionfale. Allo studente Giuseppe Orlandi di Pontremoli, arrestato e perquisito (per un rapporto segreto di mons. Boninsegni) vien trovata un'Ode a Dio «dove si fanno allusioni
alla libertà d'Italia»:
Odi, o Signor: rimira
sotto del fascio orribile
Italia che sospira
la dolce libertà.

Non so se quest'Ode fosse la stessa di quella «a Dio Redentore», della quale si scoprì autore Giuseppe Falcini studente di chirurgia. Eccovi il dialogo col Commissario di polizia che lo interroga sul delitto poetico:
Che significa la preghiera che sia abbattuta la tirannide?
S'intende che sia abbattuto il potere di Satanno o del Demonio.
E per libertà dei popoli?
Che i popoli saranno liberi dopo infrante le catene di Satanno.
E il furore dei Regi?
È il furore dei demoni, mi par chiaro.
[014] Proprio chiaro ?
Non è la prima volta, signor Commissario, che un poeta scrive sotto metafora e sotto allegoria....

Par d'esserci a sentirli, non è vero? E poi c'è l'Accademia Puccinottiana, che ha per fondatori e membri alcuni studenti di medicina, e preoccupa la polizia. Cos' è È davvero scientifica o è politica? Trovo che Emidio Pistelli di Camaiore vi lesse una memoria «sull'infiammazione in generale»; ma se quel mio caro zio invecchiando diventò un gran codino, questo non esclude che alludesse allora anche ad altre infiammazioni; perché allora era giovane e liberale. Anche la prima lezione del Centofanti, con corone d'alloro e accompagnamento a casa tra grida frenetiche, ha una lunga storia in queste carte. Il che non impedì che anche lui fosse poi sospettato dagli studenti più accesi, e che sui muri si leggesse: Carmignani in Arno, col Bonaini
(05). Dopo i primi arresti per i fischi, si diffonde questa sestina (è in atti, di mano del Conti, mi pare, e forse ne è lui l'autore):

Pace pace si grida, e poi perdio
soffron nuovi infelici ingiuste pene.
Pace si grida, e tuttor nell'oblio
i fratelli si lasciano in catene?
E ancor si fa silenzio? Ma per poco:
un punto solo è lo scoppiar del fuoco.

[015] E quando fu iniziata l'istruttoria per l'altro fatto, come ora vedremo, andavano in giro questi altri versi:

Si vorrebbe saper se sia più iniquo
un'aggressione, un giovanil tumulto,
o un inquisire proditorio, obliquo,
d'un mercenario tribunale occulto;
se sia più vile un giustiziar mendace,
o la pazienza di chi soffre e tace.

Non c'è mica male, tutti questi versi (non son proprio sicuro che oggi gli studenti ne scriverebbero dei più belli). Ma quei giudici toscani non meritavano un tono così alfieriano, come si vide poi chiaro. E anche i poliziotti quando raccontano d'aver sequestrato fogli volanti con domande di questo genere: — Se Newton per una mela sola fece tante scoperte, quante ne farà il Corridi? —, sorridono dell'ombroso professore di calcolo integrale; che se era più padrone dei suoi nervi, avrebbe risparmiato molti guai a sé e agli altri.

Ma torniamo alle indagini e al processo Del Rosso. I primi sospettati furono un Petronici romagnolo, un Elian marsigliese, Dario Pini e Augusto Conti tutt'e due Sanminiatesi. Per il Conti trovaron subito indizi e testimonianze che fosse proprio uno degli aggressori, come ho già ricordato. Ma erano indizi deboli, per esempio che il Conti l'avesse col Del Rosso perché negli esami d' ottobre voleva negargli «il plauso» e glie l'aveva poi dato perché costretto dai colleghi Regny e Montanelli. Non
[016] c'era una parola di vero in queste chiacchiere, che il Del Rosso nell'interrogatorio chiamò «assurde»; tant'è vero che il Regny non assisteva a quell'esame; e dopo quell'esame — depose il Del Rosso — «elessi il Conti capo di sezione, e tra me e lui è passata sempre tutta l'amicizia possibile». E aggiungeva, il brav'uomo, che «perdonava a tutti, non voleva che alcuno fosse ricercato o inquietato menomamente, rinunziava a qualunque diritto verso gli offensori». Ma questa generosità non era ormai possibile: l'aggressione premeditata, compiuta a tradimento, in una casa che era sempre aperta agli studenti, contro un loro professore — che non aveva altra colpa che d'aver chiesto fosse tutelata la dignità e la libertà della cattedra —, tutto questo doveva essere inquisito e punito esemplarmente. Si ebbe prima una «procedura economica» alla quale fu preposto l'avvocato Filippo Zannetti Commissario di San Marco a Livorno, poi una «procedura ordinaria». Subito nella prima adunanza fu dato ordine che arrestati e perquisiti, tra gli altri, il Conti e il Pini che eran tornati a San Miniato, fossero mandati alle carceri di Livorno. Per il Conti fu subito fatto il 27 aprile, e inutilmente i suoi genitori corsero a Pisa; il Pini non era a San Miniato, ma i poliziotti persuasero i suoi a farlo presentare. Si costituì infatti, e poiché era malato d'erpete, gli permisero certi bagni e di vedere la mamma. Il Conti per qualche tempo nega: confessa d'esser «focoso, ma anche facile a calmarsi e a chiedere anche scusa»; «furioso da venir subito alle mani per una parola» dice un rapporto. Ed era così davvero, e ne diede prove fino a ottant'anni; e noi che l'abbiam conosciuto potremmo raccontarne di curiose. In [017] carcere scrisse al Del Rosso che s'interponesse presso il Granduca affinché il processo fosse troncato; e scrisse anche una supplica direttamente al Granduca della quale è da leggere almeno questo periodo: «— Io non farò qui proteste d'innocenza, perché gratuitamente dalla Maestà Vostra non sarebbero credute; ma vi prego colle lacrime sul ciglio per me, e per quelli che credo sieno con me arrestati, a volere ordinare che sia tronco questo processo, affinché i non colpevoli tolti da questo languore siano ridonati alle loro famiglie piangenti; e il nome dei rei rimanga nel buio, per allontanare il disonore d'un'azione troppo cattiva da loro e dalle loro povere famiglie— ».
Bisogna compatirlo: non era ancora tanto filosofo da accorgersi che ragionando a questo modo si dovrebbero chiudere carceri e tribunali.
I magistrati sentivano che, con i suoi alterni passaggi dalla depressione all'esaltazione, il Conti mostrava una coscienza poco tranquilla, e che avrebbe finito col confessare. Infatti, mentre interrogato il 10 maggio s'era difeso assai abilmente, il giorno seguente, dopo scritte le due suppliche, a nuove insistenze dei magistrati «dà in un pianto dirotto»; e confessa d' essere non solo uno dei colpevoli, ma il più colpevole di tutti; confessa «purché quanto è per dire rimanga segreto, e quel che ha tirato le bastonate non vada incontro a tutto il rigore della giustizia e trovi pietà anzi che vendetta». Diciamo subito che quand'ebbe cominciato a parlare, non si tenne più, e non solo confessò, ma per dirlo toscanamente svesciò tutto; e pur troppo gli sfuggirono di bocca due nomi, come di partecipi al fatto: di Francesco Ferrari e di Giuseppe Guidetti, tutt'e due di Reggio, che subito [018] furono arrestati, perquisiti e imprigionati. A contarli tutti, coll'estendersi delle ricerche gli imputati crebbero a ventisette, quattordici dei quali soffrirono per più o meno tempo la carcere; ma corsero il rischio della galera, e parvero meritarla, soltanto Conti, Ferrari e Guidetti (06).
Il Conti fece la sua deposizione, rifacendosi da lontano, il 12 e 13 di giugno. Una parte l'abbiamo già letta insieme. Ne trascrivo ora altre parti, e vorrei avere spazio per tutta, tanto è viva. Dopo aver raccontato quel che accadde dopo il giorno dei fischi, e quali studenti erano perciò in carcere, continua così:

«La mattina del 14 aprile (1842) il Corridi tornò a far lezione in Sapienza, dopo essere stato vari giorni senza comparirvi. Al vederlo tornare a far lezione senza aver veduto nessuna risoluzione favorevole ai carcerati, ci fece ritenere che egli non avesse più timore alcuno degli scolari.... e che dovesse per quei disgraziati venire qualche condanna rigorosa. Ci confermammo in questa opinione quando si seppe che il professor Matteucci, solito fare delle smargiassate e che una volta so che si [019] messe a guardare fieramente Guidetti e Ferrari, era stato veduto in Sapienza la mattina stessa del 14 girare per l'atrio con la mazza in mano quasi bravazzando e mostrando di voler prendere le difese del Corridi se si fosse tentato di rifischiarlo.... Il 15 poi, la non può credere lo stato di dispiacere in cui era la scoleresca in codesta mattina. Si vedevano gli scolari quasi oppressi da qualche disgrazia girare smelensiti» — perché si era sparsa la nuova che i carcerati sarebbero esiliati, come fu certo la mattina dopo. I più risoluti (Conti, Guidetti, Ferrari, Cherici, Petronici, Chiloni e qualche altro) si radunarono per deliberare il da farsi, in una osteria fuori di Porta Nuova. «Fattasi dare una stanza al secondo piano, ordinarono pane, ova sode, vin bianco e nero», poi si chiusero e cominciarono la discussione. Prevaleva dapprima l' idea che era «generoso e preferibile un partito aperto», non un'insidia, «Io — racconta il nostro Conti — proponevo di andare in una quarantina o cinquantina di scolari dei più risoluti al Palazzo Pretorio, verso l'un'ora di notte.... in drappelletti, metà dei quali dovevano girare dalla parte di dietro del Pretorio sboccando dall'Arco e dal vicolo che mette nel Loggiato; e metà dovevano entrare nel Loggiato dalla parte davanti del Pretorio stesso, e così contemporaneamente riuniti gettarsi subito nel Corpo di guardia e impadronirsi delle armi.... Dicevo che bisognava anche pensare al Corpo dei Carabinieri e, presi cotesti posti militari, una parte degli scolari doveva stare in guardia perché nessuno andasse ad avvisare altra forza e la cavalleria; e parte doveva salire nel Pretorio e intimorire colla minaccia d'un fatto sanguinoso se non avessero scarcerato i [020] detenuti. E notavo a questo proposito che il carattere pauroso altra volta dimostrato dalla Polizia mi dava guarentigia che non sarebbe seguito alcun disordine né massacro, perché avrebbero subito messi fuori i detenuti.»
La proposta non dispiacque ai presenti. Ma messisi a contare questi quaranta o cinquanta «risoluti», conclusero che per un'azione così rischiosa non c'era da sperare di trovarli. Bisognava dunque pensare ad altro. La seconda proposta che venne in discussione fu di «bastonare i professori contrari», come Matteucci, Bonaini, Obici, e specialmente Del Rosso che aveva dichiarato di non riprendere le lezioni finché il Governo non avesse dato sodisfazione ai professori. Il Conti si dichiarò contrario «alle reazioni private, che si assomigliano alle frodi e al tradimento degli assassini». Tutti consentirono in teoria, ma sostennero che in pratica era una necessità: «così i professori appena avessero inteso che taluni di essi erano stati bastonati, avrebbero proceduto con giudizio». Fu allora deciso che al Del Rosso penserebbe il Conti «pratico della casa» con Ferrari e Guidetti; e Cherici starebbe fuori di guardia. Altri avrebbero pensato ad altri professori, per la strada, cogliendo il momento opportuno. Vennero anche ai particolari: il Del Rosso doveva prenderle sulle spalle, mentre era seduto; gli altri alle gambe finché cadessero. E con questi nobili propositi l'adunanza si sciolse.
La sera tardi Conti e Cherici andarono al Caffè dell'Aquila, e c'erano ad aspettarli Guidetti e Ferrari. Il Conti aveva il bastone d'un compagno, «di canna da zucchero color chiaro, grosso quanto una moneta di [021] cinque paoli, e anche meno, nella parte più grossa; senza pomo, con ghiera». Anche Ferrari e Guidetti avevano il bastone: Cherici no perché doveva restar fuori di guardia. Il Conti col Cherici lasciano gli altri al Caffè, e vanno presso la casa Del Rosso, per esplorare. Il Conti sale su, con la scusa di domandare cose di studio, e ci trova altri scolari. Sceso, lascia lì di guardia il Cherici, dicendogli chi c'era e che stesse attento finché tutti fossero usciti; poi torna da Guidetti e Ferrari con Corradini, che incontrò per la strada, e dal quale si fece prestare il berretto «di velluto color azzurro scuro, schiacciato, con tesa piccola della stessa roba». Ma il berretto non bastava per un travestimento, e dové tornare nella sua camera a perfezionarlo. Lasciamo che racconti lui:
«Entrato in camera accesi il lume e con un sughero, o tappo di sughero di bottiglia che avanti ero andato a chiedere e farmi dare in grazia, senza dirne che cosa ne volevo fare, alla bottega di Misoch da uno di quei garzoni che vendono liquori pasticcini e altro, lo bruciai alla fiaccola della lucerna, mi feci baffi e pinzo a traverso il mento con quel nero di sughero carbonizzato, e quindi spento il lume tornai giù e mi riunii a Guidetti e Ferrari e s'andò verso la piazza dei Cavalieri». —

Andando, s'imbatterono in altri scolari, ai quali dissero: «
Si va là». E quelli risposero : «Bene, e noi si cerca».
Cioè cercavano, o fingevan di cercare, professori da bastonare. Ma la verità è che soltanto il Conti l'aveva presa sul serio. Come i congiurati furono in Via Santa Caterina, si fermarono in distanza ad aspettare che da casa Del Rosso fossero usciti tutti, e il Conti fissò e ripeté agli altri tutte le disposizioni strategiche.
[022] «Arrivati alla porta del Del Rosso, Ferrari picchiò o suonò. In questo momento Guidetti disse: Che si farà?, e Ferrari pure rispose: Che si farà?... Ma in quel momento fu aperto l'uscio dal ragazzo di casa del professore». Entra primo Ferrari, secondo Conti, terzo Guidetti. Il Ferrari domanda: «Si può passare dal signor professore?» E la serva: «Passino, passino». Intanto il Cherici di fuori li richiama indietro, ma troppo tardi, ch'eran già all'uscio del professore. I due dicono al Conti «Va tu avanti». E il Conti entrò primo.
«Il professore facendo l'atto di vedere chi era, mi porse il capo, e io vibrando il colpo diretto sulla spalla, lo presi invece nel capo e mi parve che lo cogliessi attraverso il cranio. Egli esclamò: Oh Dio!, e si gettò sulla poltrona alzando il braccio. Io vedendo che tentava di alzarsi gli detti un'altra bastonata su un braccio, che però fu leggiera. Poi tirai delle bastonate sul lume per spezzarlo, e sul tavolino per buttarlo addosso al professore onde fargli impaccio perché non si alzasse. Il lume andò in terra, e allora detti qualche altro colpo alla rinfusa sul tavolino, e forse avrò chiappato anche il Professore. Io ero veramente impazzito e fuori di senno, perché creda che quell'azione che sapeva di tradimento mi conturbava».
Al primo colpo, Ferrari e Guidetti avevan preso la porta, e via. Il povero professore, riuscì ad alzarsi a fatica, e ad afferrare il Conti pel soprabito «color marrone, di panno zèffiro», strappandone due occhielli; ma il giovane si svincola e con una spinta lo ributta per terra. Poi, lasciamolo dire a lui, «scappai e infuriato com'ero detti qualche colpo a delle donne che trovai per [023] le scale col lume in mano». Corso a casa si lavò i baffi e il pinzo, e poi subito «al Basso Mondo a mangiare un piatto di maccheroni», per procurarsi un alibi. Come lo rivedo! Anche a lezione era così, quando si infervorava. Picchiava sul panteista e sul materialista — «il materialista separa, il panteista confonde», te ne ricordi, amico Melli? — con la stessa furia che quella sera sul professore, sul lume, sul tavolino e su quelle povere donne che trovò per le scale col lume in mano....
L'interrogatorio continua, e possiamo ancora spigolame qualche tratto caratteristico. Per esempio, interrogato, dice d'aver sentito parlare d'una specie di società segreta tra gli scolari, «
diretta a difendere le offese che qualche scolare potesse ricevere specialmente dalla Polizia; giacché quando quel carabiniere sulla Piazza di San Niccola si espresse che voleva far teste, la cosa dispiacque; e siccomie non fu il carabiniere castigato di questa minaccia, mentre castigati furono gli scolari, fu detto che se il governo non pensava alla difesa degli scolari, bisognava che ci pensassero gli scolari da sé».
E parlando del suo carattere focoso, porta quest'esempio: «Una sera per poche parole piccanti che mi disse il Bastianoni che è stato sempre ed è mio amico, e per essersi lui subito chiuso nella sua stanza dicendo — con te non ci si può discorrere —, io mi irritai, e dalla mia camera andando all'uscio della sua e preso da un atto di rabbia detti un forte pugno all'uscio e lo sfondai, e da quello sfondo vidi il Bastianoni che si era quasi impaurito e mi disse: — Ora che vuoi fare? —, e io mettendomi e, ridere gli dissi: — Anche tu dirmi queste parole ! Se sei dispiacente della bussola, te la pagherò io.[024] Egli aprì e si cominciò a discorrere fra noi facendo conversazione fino al tardi». E racconta anche come fu che si svegliò da quella pazza esaltazione delle bastonature. Fu quando sentì dire dal prof. Montanelli: «Se il Del Rosso muore, c'è la galera a vita». «Non può credere confessa al giudice che specie mi facesse questo discorso; e cominciai allora ad avvedermi dell'abisso nel quale io impensatamente mi ero gettato».

Molto diversi gli altri due, Ferrari e Guidetti. Il Ferrari dà risposte secche, recise. Non ha visto né conosciuto nessuno, non sa nulla di nulla, «gli pare di non aver mai parlato con Augusto Conti». Il Guidetti è anche più taciturno: in tre interrogatorii non gli levano una parola di bocca: il Conti «
lo conosce forse di vista», ma senza sapere come si chiama. E anche il Cherici: «Fossi io solo, la chiederei da me la pena alla giustizia. Mi puniscano, ma il rivelatore non lo posso fare» ; e non ha altro da dire. Erano veramente, i tre reggiani, benché di fatto meno colpevoli, d'altra tempra. Probabilmente non era la prima volta che si trovavano a quei ferri con la polizia, e sapevano regolarsi meglio del sanminiatese ingenuo e impetuoso.
E ora che sappiamo tutto, potremmo immaginare che la cosa finisse male, e veramente c'era di che. Non dirò minutamente le varie fasi del processo economico e dell'ordinario, anche perché potrei imbrogliarmi tra questo ammasso di fogli per la mia fortunata inesperienza di cose legali. Basterà dire che il governo considerò e [025] definì l'affare giudiziario col buon senso e anche col buon cuore, fino a nascondere che si trattava di agguato e di ferimento. Per consiglio dello stesso Bologna presidente del Buon Governo (nella sua relazione finale al Granduca) si stabilì d'usare la formula che il Conti e gli altri erano stati «riconosciuti debitori di contegno diretto a turbare la tranquillità e l'ordine della Università». Non si poteva essere più paterni di così! Dei dieci che ai primi d'ottobre erano ancora carcerati, gli «esteri», cioè Ferrari, Guidetti, Corradini, Chiloni e Monzani furono rimpatriati; Conti, Cherici, Petronici, Castelli e Talinucci di Barga fatti «riaccompagnare a casa»: dice proprio così, frase paterna anche questa. Tutti però furono esclusi dalle Università Toscane; e questo era troppo naturale. Il Conti non tentò nulla per sé; ma turbato dal rimorso d'aver compromesso gli altri parlando troppo, sicché non gli fu di sollievo neppure il ritorno in famiglia, indirizzò al Bologna una supplica perché ai compagni fosse concesso di tornare a finir gli studi, se non a Pisa, all'Università di Siena. Non credo che fosse esaudito. Quanto a sé, potè essere ammesso al Reale Liceo di Lucca, dove era allora una specie di Facoltà legale, e il 23 luglio del 1844 vi conseguì la laurea in legge (07).
[026] Non ho bisogno di concludere con la morale, e neppure di difendere il Conti. La sua colpa fu grave, e nessuno lo sentiva più di lui, che non se la perdonò mai. Una cosa è chiara, che l'uomo di carattere quale il Conti si dimostrò poi sempre, era già negli atti di quei processi. Un carattere non sempre volto a cose buone allora, ma schietto e forte, e un coraggio a tutta prova. Il lettore ricorderà che la fischiata al Corridi forse, dopo tanti accordi e minacce, andava in fumo, se al momento opportuno non finiva col prenderne il Conti l'iniziativa. E tutti vani sarebbero restati i feroci propositi e le congiure per bastonare tanti professori, se non ne bastonava almeno uno il Conti. Dire: — era meglio che anch'egli non ne facesse nulla — è dire una verità banale. Tra tanti che mettevan su, che urlavano e poi scappavano o si nascondevano, ce n'era uno che rifuggiva dall'insidia, e lo diceva chiaro; ma che quando aveva preso impegno, manteneva. I magistrati sentirono quel che c'era di buono in quel giovane; che c'era, specialmente, del carattere; e gli furon benevoli. Ed ebbero ragione dal tempo. Non oso giudicare il filosofo; ma l'uomo, il maestro, il cattolico, il patriotta si, posso giudicarli, e dire che furono bronzo schietto. Come fu il portabandiera a Curtatone, così fu il portabandiera nella buona battaglia — tra i fantaccini c'ero anch'io — contro la trista setta che per disfare l'Italia proclamò il «né eletti né elettori». E anche in Parlamento, dove lo mandarono i suoi Sanminiatesi, spiegò la bandiera di cattolico e d'italiano, con sincerità di cuore, senza rispetti umani, senza [027] bassi opportunismi parlamentari, sempre con carattere e coraggio; virtù che gli valsero non solo il rispetto, ma l'affetto di avversari come Nino Bixio. Sarebbe da augurare che avesse imitatori. Ma lo conoscono? O riconoscono l'opera sua? Qualche mese fa, andato una sera a sentire un deputato cattolico che per invito d'una Associazione cattolica lo commemorava, dovetti accorgermi che l'oratore non si ricordava, o non voleva ricordarsi, che, mezzo secolo e più prima di lui, Augusto Conti era stato deputato cattolico nel Parlamento italiano. Mai come quella sera mi son morso, le mani per non poter gridare: — Domando la parola ! —.

NOTE
(01) Della Vita e delle Opere di Augusto Conti. Firenze, Alfani e Venturi, 1906.
(02) Vedi specialmente Archivio Segreto del Buon Governo, 19 e 20, n. 60, parte 1a, 2a, 3a (1842). Ma bisogna vedere anche i precedenti del fatto al n. 53 e altrove.
(03) «Della vita e delle opere» del prof. Del Rosso scrisse F. C. Bonamici fin dal 1859; ma dell'argomento che ci occupa c'è appena un cenno.
(04) Grave è il rapporto di Humbourg (23 aprile): «Si parla e si ride dell'esame di tre laureandi che già rigettati come incapaci, furono ieri ammessi a nuovo esperimento. Uno degli esaminatori taceva, altri facevano interrogazioni facilissime e uno finalmente suggeriva parola per parola le risposte. I tre giovani sono già dottori, e lo saranno fra due mesi molti altri di uguale calibro; sembrando pur troppo che sussista e sia pervenuta all'orecchio dei professori la voce che minaccia chiunque di essi fosse per osare di dare voto contrario». C'è qualche somiglianza con certi «esami di guerra» di tempi più vicini a noi.
(05) Una delle iscrizioni diceva precisamente così: «Carmignani in Arno; Bonaini maestro di
(06) Tra i carcerati furono Vincenzo Corradini, Luigi Chiloni, Feliciano Monzani e Vincenzo Dallori, anch'essi di Reggio; poi il Cherici di Bibbiena, il Petronici e il Castelli di Rocca San Casciano: più della metà dunque non toscani. Di Firenze il solo Augusto Michelacci; di San Miniato anche il Pini. Fa maraviglia di non trovare tra gl'inquisiti Arcangelo Fucini di Limite, che è sempre descritto come
uno degli studenti meno tranquilli: «non sogna che pugni e prepotenze», dice un rapporto; e girava di notte a spaventare i pacifici cittadini, a sonare i campanelli di medici e levatrici, insomma era un
vero monello. Della famiglia di Neri? Non saprei dirlo.
(07) Alla fine di settembre tutto era finito. In quattro mesi e mezzo, indagini varie e complicate, interrogatorii d'oltre cento studenti, due processi. Oggi ci vorrebbero due anni, almeno. Davvero — come ricordo altrove con le parole del Carducci — quei magistrati e impiegati della vecchia Toscana erano della brava gente che non rubava la modesta paga.

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