mercoledì 16 dicembre 2015

DAGLI SPEDALI RIUNITI AL NOSTRO OSPEDALE - Racconto di Giancarlo Pertici

di Giancarlo Pertici

 RACCONTI DALLO SCIOA

Dagli 'Ospedali Riuniti di San Miniato' al nostro Ospedale...
di noi bambini samminiatesi,  da quelli dello Scioa fin "di là".

La nascita dell'ospedale può essere datata 1333, quando i Frati Agostiniani, che avevano un loro convento in Santa Caterina, chiesero al Comune di San Miniato di istituire un proprio Ospedale alle dipendenze dell' Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, riconosciuto come tale nel 1298 da Papa Bonifacio VIII. E’ così che nel 1333 viene approvato ed istituito il nuovo Ospedale nei locali donati dal Comune di San Miniato all'ospedale di Siena "per ricevere i figli spersi e trovatelli".
"Gli Ospedali Riuniti di San Miniato" invece vengono fondati nel 1786 da Pietro Leopoldo, il quale sopprime il convento degli agostiniani in Santa Caterina, assegnando le rendite al nuovo istituto e aggregando ad esso tutti gli altri piccoli ospedali. Ospedale il cui compito era di occuparsi dei 'malati acuti miserabili' e dei 'gettatelli' e dal 1886, all'ultimo piano, dei 'dementi cronici di ambo i sessi'. Ospedale che viene ampliato attorno al 1920 con la costruzione del padiglione Montegrappa per la cura dei malati di tisi.

Innumerevoli gli ospedali presenti in città e sul territorio comunale, soppressi e/o riuniti agli "Ospedali Riuniti di San Miniato" in Santa Caterina:
  • l'ospedale dei lebbrosi di 'Fuori di Porta Ser Ridolfo' presso Santa Maria al Fortino, dapprima riunito nell'ospedale per i poveri abbandonati e per i pellegrini dei SS. Cosimo e Damiano (Faognana)
  • l'ospedale dei Canonici di S. Antonio di Vienna nel Delfinato (Palazzo Pelli-Cini), il cui stemma del TAU è ancor oggi visibile in una lapide di marmo, sulla parete esterna della chiesa, lungo la discesa verso Piazza Bonaparte. Ospedale che era specializzato nella 'cura della lebbra e del fuoco sciagro' (fuoco di Sant'Antonio)
  • l'ospedale dei lebbrosi a San Lazzaro nel popolo di Pino, che si trovava presso Borgo San Genesio lungo la Via Francigena.
  • l'ospedale di Santa Croce del Fondo (Piazzetta del Fondo)
  • l'ospedaletto della Badia di Santa Gonda (Catena)
  • l'ospedale per poveri di Piazza San Domenico istituito da don Iacopo Vanni
  • l'ospedale di San Nicolò di Bari per gli infermi fondato da Mons. Giovanni Francesco Maria Poggi, vescovo di San Miniato, accanto alla chiesa di San Iacopo e Filippo di Pancole (incorporata dalla casa di riposo, oggi Del Campana Guazzesi)

Queste in sintesi le notizie storiche sulla nascita degli Ospedali in San Miniato fino alla attuale denominazione di 'Ospedali Riuniti' dei quali è rimasto solo il nome e dei quali resta da certificare solo la morte. Memoria annebbiata e lontano parente di quel vivido polmone, attorno al quale, tutti noi bambini, respiravamo e dal quale attingevamo risorse e che alimentavamo quotidianamente come pazienti prima, e come dipendenti dopo, in un circuito virtuoso, senza soluzione di continuità.

Il mio primo ricordo chiaro è quello di una sera d'inverno prima di Natale. La Novena nella Cappellina dell'Ospedale insieme a mamma, appena avanti cena, con una sosta nell'andito della canonica addobbato come fosse una stalla, per una 'messa in scena' della Natività con tanto di foto, ad opera di Lucchesi Mario della Serra. Io nella parte di Gesù Bambino, vestito di una tunica bianca. Anna di' Sani nella parte della Madonna. Remo Cai, vestito da frate, nella parte di San Giuseppe. Un ciuco di lato e due pecore sdraiate sulla paglia, e alcuni bambini, tra i quali riconosco Luciano, Francesco e Giorgio, ognuno con un dono in mano per Gesù Bambino.

Poi... ricordi legati al momento della mia nascita, ripetutimi fino alla nausea da mamma e babbo. Ci dimisero solo alcuni giorni dopo la tua nascita. Il battesimo nella Cappellina prima di correre a casa, lì a due passi, con nel cuore la raccomandazione del dottore. 'Cercate di tenerlo al caldo. Provateci...' Eri appena 1 kg e 750 tutto pelle ed ossa  secondo il ricordo di mamma.
Sembravi un conigliolo spellato - Quante volte babbo me lo ha ripetuto nel corso degli anni! -  Ero convinto che tu non fossi normale. Invece dentro quella scatola da scarpe, tra ovatta e bottiglie di acqua calda ce la facesti. Insostituibile l'aiuto di Ines a tenere il fuoco acceso giorno e notte. - Non si è mai capacitato come possa essere sopravvissuto.

Bambini, noi, tutti venuti al mondo in quell'ospedale, a contemplare oggi quel palazzo semivuoto, silenzioso, inanimato. Guardiano di quella piazza, privata di occhi, di mani, di voce che ci guidavano e ci consigliavano... privata anche di quella luce che generosa si riverberava sul prato e sul selciato, della quale è rimasta solo l'ombra. L'ombra della memoria, l'ombra delle nostre orme sull'erba pesticciata e sulle lastre, che divelte e rinnovate, non sembrano e non sono più le stesse. Brandelli di memoria difficili da rimuovere che evocano immagini di un'ospedale vivo, nonostante una Piazza 'riportata agli antichi' splendori, che noi bambini di allora non riusciamo a riconoscere come tale.

Giorgio  ...lato destro, dopo le tre finestre aperte al piano terra, due porte. Una era l'ingresso del Bastardaio. Nel primo dopoguerra in piazza si poteva assistere all'allattamento delle balie, con al seno i bambini ospiti.
Cesarina ...gli anni della mia gioventù!
Gianluca ...da una delle due porte bianche, si entrava dal dentista che veniva da Pisa: Dr. Lorini con Anna Dainelli assistente.
Giorgio ...poi l'ingresso a Ragiologia, dottor Dino Fogli... Palazzi importanti su quella piazza. Residenze di colonnelli e generali (Amalfitano e Maioli), di marchesi (Migliorati) e contessine (Coloredo), per Fattori e fattorie (Vittorio nella fattoria Finetti).
Pier Luigi ...il dr. Bellini era il direttore sanitario, il dr. Nardini era il chirurgo e il dr. Fogli il radiologo.
Alberto ...io sono nato nell'ingresso dell'ospedale in un materasso messo in terra perché tutti i letti erano occupati dai feriti dell'eccidio del Duomo  (del 22 luglio)  nato pochi giorni dopo
Carla ...anche io sono nata all'ospedale. Parto difficile assistito dal dott. Nardini. Battezzata in Santa Caterina, la levatrice come madrina.
Gianluca ..anche io nato all'ospedale e battezzato nella cappellina.
Giorgio ...Da bambini abbiamo convissuto con i bambini del Bastardaio. Per noi era normale giocare con loro, siamo cresciuti insieme.
Giorgio ...dalle finestre lassù sottogronda, sentivamo urla strazianti, maledizioni, bestemmie dei 'pazzi' chiusi dietro quelle finestre. Finestre sbarrate e chiuse da rete di sicurezza. Poi il popolo dei 'tubercolosi' e il Sanatorio appena fuori porta, prima della discesa del Sasso, là dove comincia la campagna.

E c'è comunque sempre un momento nella giornata, e siamo negli anni immediati del dopoguerra, durante il quale dobbiamo starcene lontani, senza intromissioni di sorta, non solo dai reparti ma anche dai corridoi di passaggio dell'Ospedale, dal vano d'accesso alle cucine, dall'ingresso principale e in special modo dalle camerate. È il momento del passaggio del turno dei dottori, con in testa il dottor Bellini e il dottor. Nardini.
Dall'ingresso principale, da dove si accede al Pronto Soccorso, ci pensa il Cucchi, se è di turno nella garitta all'ingresso, a mandarti indietro con modi bruschi e con tono severo, quasi una controfigura di quel burlone che, smontata la divisa di servizio, fa confondere mamme e bambini intromettendosi sulla linea di passaggio da casa a bottega. Le vie secondarie sorvegliate a vista dalle monache, ma anche da infermieri e faticanti che non ammettono deroghe nell'orario che va dalle 9 alle 10 di ogni mattina. Negli altri momenti, invece, è il via libera, anche se con fare rispettoso, cercando di non fare troppa confusione, evitando i giorni in cui ci sono le operazioni in corso, secondo le istruzioni che ci giungono puntualmente da mamme, nonne, zie o parenti vari, quasi tutti infermieri 'generici', molto generici, a lavorare dentro il nostro ospedale a tutte le ore secondo i turni.

Poi ci sono quei momenti che invece non puoi evitare. Tocca a te, questa volta. Il più delle volte si tratta di tonsille da togliere. Quando nel '63, me lo ricordo bene siamo agli inizi dell'anno, devo operarmi per l'unghia incarnita del pollice di entrambi i piedi. Oramai giovinetto con i miei 16 anni, con la speranza di evitarne l'asporto. È anestesia totale, combattuto dal dubbio di ritrovarmi entrambi i piedi operati Se mi ritrovo con tutti e due i piedi operati, non so se.. quasi una minaccia la mia rivolta al dottore.  Mi viene risparmiato il piede sinistro, grazie al lavoro paziente e certosino di Ilio Mascagni, infermiere di Piazza de' Polli e amico di famiglia.
Renata ...quando mi tolsero le tonsille, mi dissero che mi portavano giù a fare una fotografia. E una volta tornata a casa a farmi le punture, non so di cosa, arrivava puntuale Vittorio Malvezzi.
Lucia ...una volta ci volevo portare il cane. Tutto pieno di graffi dopo che era stato aggredito da un gatto. Volevo che me lo curassero loro.
Monica ...a me le tolsero le tonsille promettendomi tanto gelato.
Renata ...anche a me! Solo che non riuscivo a buttare giù nulla, neppure il gelato.
Daniela ...mi venne a prendere in corsia Vittorio. Mi voleva portare in collo fino in sala operatoria. 'In collo a te non ci vengo, sei tutto sanguinoso' Andai e tornai a piedi dalla sala operatoria. Mi dissero di stare zitta e che se non piangevo potevo mangiare tutti i gelati che volevo. Da quel momento diventai muta. Non dissi parola per un'intera settimana. Feci alla svelta a guarire.

Poi c'è il momento in cui il dottor Nardini sembra cambiare pelle e si trasforma in una specie di nonno, o di zio di noi tutti bambini di piazza, quando, fuori servizio, arriva con il suo 1100 nuovo fiammante, l'unico in circolazione in quegli anni. Portiere spalancate, ci carica tutti, anche in più viaggi, per un giro di Piazza, vetri abbassati, al suono del clacson. Posti privilegiati, quelli accanto al finestrino e quello accanto al posto di guida, ad ammirare lo scorrere dei portoni all'esterno, e le facce meravigliate e i sorrisi di circostanza  di quanti, sul prato centrale, restano in paziente attesa del proprio turno. Uno sguardo in alto verso le finestre del primo piano, verso quei convalescenti che, a una certa ora del pomeriggio, se ne stanno affacciati, gomiti affossati nella soglia, mani a coppa a sorreggere volti sofferenti ma curiosi. Un sguardo fugace anche verso l'ultimo piano a cogliere versacci, linguacce e quelle mani, mani enormi, quelle dei 'matti', nervosamente protese a stringere le sbarre di ferro.

Ancora maggior curiosità suscita ogni transito di ambulanza, in entrata o in uscita. Rigoletto, che ben conosciamo e lo sentiamo raccontare le sue avventure in terra d'Africa, la sera, a veglia in Piazza de' Polli, dal Bulleri caffè Micheletti, lo seguiamo sempre con lo sguardo mentre si incammina al garage di Via Ferrucci e lo sentiamo mettere in moto l'ambulanza. Immancabile la sirena, che accende ogni qualvolta l'usa, anche se va a caricare le damigiane di vino alla Borghigiana. Altra storia, sempre di ambulanza, e si tratta si ricordi di ragazzi più grandi, quando autista di ambulanza è il Pescini, uno dei pochi in San Miniato nell'immediato dopoguerra ad avere la patente. Ambulanza nuova di zecca, tanti gli accessori e i bottoni strani, a destare curiosità, anche morbosa, se e quando si presenta l'occasione di poterla ammirare da vicino e ispezionare senza furia, con comodo. E così è quella volta che il Pescini, impegnato a fare scorta di sigarette dal Giorgi, lasciando l'ambulanza aperta ed in moto proprio davanti all'appalto, viene trattenuto dall'incontro con gli amici soliti, intenti a farsi la partita a scopa, e dall'immancabile scambio di battute e convenevoli, che allungano i tempi d'attesa. Occasione irrinunciabile per Luciano, l'aria da sempre di chi si intende di macchine e di motori, il quale, sollecitato ad arte da Giorgio, cugino e amico del cuore, sprenzolandosi all'interno dal finestrino aperto, prova a più riprese il classon, le frecce, il tergicristallo, tentato da tutti quei pulsanti sul cruscotto, nuovi, di colori diversi. E quello rosso fiammante che sembra fargli l'occhiolino! Mentre cerca di spiegare a Giorgio la funzione di ognuno, arriva a quello rosso 'E questo pulsante invece...' non fa in tempo a terminare la frase, che la sirena involontariamente azionata, va a coprire la voce e ogni altro rumore attorno, mentre attira inevitabilmente il Pescini che si precipita all'ambulanza e ogni curioso che nei paraggi si affaccia alla finestra o scende in istrada per capire cosa sia successo. È così ogni volta che risuona una sirena. Ma, ad ambulanza nuova anche per il Pescini, fra le risate generali, la sirena non ne vuol sapere di fermarsi, continua a lamentarsi nonostante i vani tentativi del Pescini, finché non riesce nell'intento, dopo aver spento anche il motore e dopo che sono trascorsi interminabili minuti tra il divertimento garantito di Giorgio e Luciano e di noi bambini di Piazza accorsi a frotte.

Passione per motori e ogni altro mezzo di trasporto da e verso l'Ospedale che ognuno di noi segue come un ombra, avidi e curiosi di ogni novità, che immancabilmente scaricano da quella porta a vetri nell'angolo. Quando è aperta, è da quella che si entra dappertutto: in Cappella, in Radiologia, dal Dentista, in Cucina, in lavanderia e in giardino, con passaggio segreto verso il Sanatorio. Entrata di servizio che si spalanca quando il Cavallo, questo il soprannome del barrocciaio, arriva col suo barroccio proveniente dai macelli pubblici, zona Carceri, per scaricare un vitello intero alla volta. Lo adagiano sopra un tavolone nell'ingresso e con l'aiuto del Lillo, la mano esperta del Nencini lo squarta e lo spezza, prima di passare in cucina e nella cella frigorifera. Partecipazione attiva di tutti, macellai esperti e non, compreso Italiano Vittoriosi, abitante lì a tre passi in via Pietro Bagnoli, conosciuto da tutti col soprannome di 'centolire'. Disponibilità la sua assoluta sempre. Unica eccezione il 4 Novembre di ogni anno. Quel giorno, o di ferie o di permesso o per malattia 'Centolire' si ritiene da sempre libero. Quel giorno va all'Areoporto San Giusto a Pisa, il 4 novembre si vola gratis. Non ha mai saltato un anno.

Stesso ingresso, liturgie diverse, per l'arrivo ogni giorno, o quasi, del barroccio del Faraoni, trainato anch'esso da un cavallo, a portare dal piano frutta e verdura di stagione. Barroccio in sosta all'ombra generosa di una quercia, quella ad angolo vicino alla chiesa, nel periodo estivo, per una scelta alla mano da parte delle suore, suor Maria in prima fila. Un cesto di insalata per volta. Occhi e mani esperte a selezionare, al tatto, alla vista ma anche all'olfatto solo quella migliore. Quando si tratta di frutta estiva, tra pesche ed albicocche, a noi ragazzi che abbiamo la ventura di girare nei paraggi, ad arraffare e assaporare quella scartata perché ammaccata o già andata. Solo verdure fresche di giornata, dalla bietola, ai pomodori, ai fagiolini, che a ceste intere, con un abile passamano, transitano dall'ingresso fino al magazzino, ultima porta del corridoio davanti alle cucine. Mentre il barroccio riprende la sua corsa verso altre botteghe iniziando da Pietro per finire dalle 'Puppone' in Piazza de' Polli.

Ma è un passaggio, questo che porta alle cucine, che ci evita la circunnavigazione di tutto l'ospedale per arrivare al podere sottostante, quello di Cesare, fratello di nonno Lillo, sopratutto a palato provocato, ma non pienamente soddisfatto, da quelle pesce o da quelle albicocche di scarto. Palato che, sollecitato, reclama soddisfazione, mentre lo stomaco fa i suoi soliti versi, sopratutto se è l'ora della merenda e se le giornate sono lunghe. Quasi una rampa di lancio quel passaggio, corridoio in discesa, dove i carrelli di cucina stazionano con le ruote bloccate da una zeppa. Corridoio che termina su un pianerottolo d'accesso a una ampia scalinata che scende fino in giardino, all'ombra di due abeti altissimi. In due o tre salti, indovinando il giusto ritmo e saltandone almeno la metà, superiamo l'ultima siepe, sempre rasata ad arte da Lillo, che separa dal podere sottostante, quello di Cesare. Il cuore in gola, sospinti dalla sensazione e dal brivido del rischio e del pericolo, quali ladri in erba ci sentiamo, quella sensazione aumenta di intensità, quando sfioriamo la stanza mortuaria, e quando, a bocca e naso chiusi, lì a pochi metri oltrepassiamo il Sanatorio, facendo buon uso di avvertenze e di consigli, dei quali, genitori e parenti sono sempre prodighi, ignari dello scopo reale delle nostre missioni. Quasi sempre un atterraggio silenzioso, a bocche cucite per non tradire la nostra presenza, a tentare di trafugare o ciliege, o albicocche o fichi. Dipende dalla stagione. Forti della complicità involontaria degli addetti alle cucine che ci vedono transitare spesso per quel corridoio, ma ignari della nostra reale destinazione, perché talvolta semplice scorciatoia per la Via del Sasso o per Pian  delle Fornaci.

E se stazioniamo in piazza, sopratutto durante il passaggio del turno, non ce ne stiamo fermi mai. C'è sempre qualche gioco che ci fa correre o rincorrere qualcosa. Talvolta è il salto ad ostacoli delle siepi, facendo tutto il giro della piazza. Facile individuare il percorso solito, evidenziato dai 'vuoti' lasciati dal passaggio dei più piccoli, quasi un viottolo a contrassegnare il guado possibile per ogni tratto di siepe. La raccolta delle ghiande sempre abbondanti per terra e che Frillo ci chiede per darle ai suoi maiali. L'occhio sempre vigile a cogliere il cambio di turno, l'orecchio teso per non perdere i primi posti, all'arrivo dell'ambulanza a sirena spiegata.
C'è sempre qualcuno di casa, pochi gli esclusi, che entrano ed escono dall'ospedale per lavoro, a dettare tempi ed orari differenziati imparati a memoria e a disegnare, quasi istintivamente una mappa, una sorta di Atlante delle donne e degli uomini dell'ospedale. Ospedale che come fossero tentacoli, o marionette appese a dei fili, tende le proprie braccia e la propria influenza, i propri riti e i propri orari dappertutto, lungo quel serpentone, tutto lastre, che arriva fino a Le Colline, con radici e tralci particolarmente invadenti, quasi a monopolizzare quell'area, nel tratto che va da Piazza Santa Caterina a Piazza de' Polli, con estensione naturale per tutto Sant'Andrea fino anco al Poggio.

Per Giorgio, se è in casa, quando si affaccia dalla finestra di cucina, sia che guardi verso Pancole sia che la sua attenzione sia rivolta verso l'ospedale, vuol dire che è in attesa che Maria, la mamma, entri in servizio. Da quella finestra traccia sempre delle immagini ad immortalare il passaggio di Adelina che sbuca da 'Sotto il Ponte', la discesa in istrada di Gina la zitella addetta sopratutto al Sanatorio, mentre Livia la sente discutere animatamente, quando sbatte la porta di casa visibilmente adirata con Musolino, il marito, sempre alticcio. Non sempre fa in tempo a vedere il silenzioso passaggio di Centolire, di servizio in cucina. Da Pancole e dintorni le sente, le vede, le riconosce anche dal timbro della voce, Gina del Brunelli e la figlia Cesarina, infermiere generiche, quando da quel palazzo che sul retro è un Ricovero per vecchi, si avviano per entrare in medicina. Come pure nota Bianca Martelloni, dopo le solite raccomandazione alle figlie Mariangela e Anna, accodarsi ad Ines, moglie di Brotino, se hanno lo stesso turno. E quando alla fine Maria, che di cognome fa Caciagli, si avvia verso l'ospedale, Giorgio viene di solito affidato a qualcuno, perché non rimanga solo in casa, grazie a quei rapporti di buon vicinato che funzionano su bisogno e a chiamata.

Giancarlone, se non è in castigo, dopo che Irma, la mamma, ha preso servizio in lavanderia, percorrendo quel pezzetto di via Pietro Bagnoli per andare a giocare Sotto il Ponte, spesso si attarda alla vista in lontananza di Adriana. Non gli fa mancare mai una carezza e una parola buona. Quasi sempre è il momento del passaggio di Quirina, che si incrocia con Anna di' Botti, lei che sta all'altro lato di Via Pietro Bagnoli.

Per Vittorio, destinato a doppiare per altezza il babbo Paolo, già particolarmente alto per la sua età, se fermo in su l'uscio, inevitabilmente ascolta le chiacchiere di amici quali sono Eletto e Angiolino, seduti sugli scalini di Casa Bucalossi, a commentare pezzi d'ospedale, a parlare di orari, di turni, di reparti, di degenti. Mentre seguono con lo sguardo il passaggio di Masina, lei che viene da Sant'Andrea con la sua bionda 'cofana', quella 'montata' di capelli cotonati, così strippata dentro una vestaglia bianca immacolata. 

Giancarlo il Capecchi, gli zii al lavoro ad asfaltare strade in tutta la toscana, senza nessun legame diretto con l'Ospedale, ci vive davanti e fa in tempo sempre a sentire il portone sbattuto di casa Maioli, quando Tosca la balia esce. Se lo fa di corsa, 'si sono rotte le acque' commenta spesso e va a far nascere un bambino.

In Piazza de' Polli, la vista libera di spaziare in ogni direzione, Pierluigi il Marmugi, sempre combattuto tra giocare su quella piazza o venire 'Sotto il Ponte' con noi, sopratutto se un amico nell'incrociarlo, gli fa 'Vieni in su anche te?' come se si offrisse di accompagnarlo, proprio mentre si affaccia sull'uscio, spesso sceglie di restare lì in attesa di altri amici, quelli del Poggio per giocare a palline ai piedi del monumento a Canapone. E attorno a quel monumento, chi a destra e chi a sinistra, in quell'inizio pomeriggio, arrivano le infermiere delle Colline: la Zani, la Sagrina, la Tamburini, La Taddeina. Anche il Lillo, ma in bicicletta. Nel mentre si muove il Lastrucci dal Poggio, sempre prodigo di sorrisi con tutti mentre si sofferma a salutare per nome ogni bambino che incontra.

Io me ne sto spesso in Piazza, nonno Nuti a fare da guardiano, mai da solo, seduto sugli scalini della cisterna, ed io, appunto, a disegnare con una scaglia di mattone la linea di partenza del 'Giro di Francia'. Gara a tappini a circunnavigare tutta la piazza, usando come pista e percorso i risciacqui scolpiti tra le lastre e i cordoli di pietra dei giardini ai quali la Piazza fa cornice. Se da Via Dalmazia arriva Ottorina, cugina di nonna Livia, non manca mai di salutare e di chiedere di babbo e mamma. Per me è come una zia o una nonna. Dietro, forse perché nascosta dalla mole di Ottorina, la Naccherina che abita in quel palazzo accanto a La Briccola. Vedo Maria Rugiati e Bruna, che stazionano nel 'bastardaio', mentre la moglie di Giulio Poli, detto Baggiacco, si sofferma a firmare il cartellino spesso in  coda al Corri, a lo Zefferi, o a Beppino Taddei che viene da I Cappuccini. Il Cresci, invece, entra dalla porta a vetri di fondo, diretto in cucina, lui cuoco in ospedale.

Per Giancarlo Matteucci è lo zio Paolino, meccanico tuttofare, addetto alle caldaie e a ogni cosa meccanica da far funzionare o riparare, il riferimento quando è nei pressi dell'ospedale. Da lui sempre un'occhiataccia preventiva prima che Giancarlo combini qualche malestro. Quando 'Gambassi', un ometto nero come l'antracite, e compagnia bella, sono in piazza a scaricare l'antracite per le caldaie, Paolino è nei pressi a dare ordini e a dare una mano, mentre chiede aiuto a chi di noi è già grandicello. Spesso sono Giorgio e Luciano, a mani nude a far scivolare col passamano le scaglie più grosse, anche se leggere, attraverso quelle finestrelle che, a pari strada, si aprono sul magazzino sottostante, locale dietro le caldaie. Giancarlo, spettatore assieme agli altri più piccoli, assiste in  silenzio alla complessa opera di rimozione di quella che all'inizio è una vera montagna di carbone, fino alla rifinitura, con scope di saggina, a togliere anche la polvere, ma non quel nero intenso che segna quella porzione di lastre. Ma non è solo questo il momento in cui Paolino si vede in Piazza. Spesso si isola in quella piccola officina che ha aperto accanto al palazzo della maestra Noemi Rossi, attrezzata con tornio, morsa e trapano per rifare il pezzo di un qualcosa andato rotto. A porta aperta, attira a sè tutti noi bambini di piazza. Talvolta si lascia seguire nel momento che rimonta quel pezzo nuovo fatto con le sue mani. Letteralmente affascinato da tutte quelle operazioni, sento le mie mani in costante movimento a simulare giri, manovre, mimando lo sforzo nel sollevare, nello stringere dadi, tubi, buloni... non riesco a scrollare gli occhi di dosso da quelle mani, ruvide, ricoperte di calli, la corona delle unghie segnata dalla morchia, le mani di Paolino. Posso solo immaginarmelo quella volta che, a lavoro oramai completato, riesco ad ammirare assieme a tutti gli altri amici di Piazza, il risultato di tutte quelle serate passate in gran segreto nell'andito di canonica, in quei dieci giorni precedenti il Natale. Di quale anno non ricordo. Ma ben ricordo, meravigliato, quel Presepe, il primo veramente grande così, realizzato sopra un enorme tavolo, per le luci quasi invisibili, la musica in sottofondo quella di "Tu scendi dalle Stelle" e i pastori in movimento a passare in fila indiana e in ordine davanti alla grotta. Certamente primi anni '50 a soffermarmi, da allora, pieno di ammirazione  e rispetto al passaggio di Paolino da e per l'Ospedale. E anche meraviglia, nel fare l'elemosina di 10 lire ai piedi del Presepe, di quella scritta luminosa a rispondere "Grazie!!"

Sempre o quasi presente nonna Livia, lei che vive a due passi. Ho quasi l'impressione che sia più il tempo che passa in ospedale di quello che passa a casa. Di turno spesso nel reparto al primo piano, quello dei 'cronici'. Tutte le volte che la incrocio in quel reparto, non è mai ferma, fa sempre qualcosa come fosse una scusa per essere nel mezzo del reparto. Un'enorme camerata, con tanti letti in fila lungo le pareti laterali. Non pesticciare! Fermati! Mettiti a sedere su quella seggiola ai piedi del letto e tieni su le gambe! E io obbedisco in attesa che abbia finito di dare il cencio. È l'ora successiva al passo, ma in quel reparto non c'è mai, o quasi mai nessuno. Tutti vecchi o malati senza parenti che abbisognano di assistenza, non particolare, ma di qualcuno che li lavi, li cambi, li imbocchi perché oramai vecchi o inabili. E Livia, dopo aver imboccato tutti o quasi, con l'aiuto di qualche dama di carità, mentre da il cencio in terra, chiacchiera con quelli che ancora sono in grado di intendere e di volere. Lei che conosce tutti, a chiedere di figli e nipoti, a ricordare il tempo passato, a raccontare di se e di Musolino con le loro beghe, così per far sentire questi 'cronici' quasi di casa, un po' come vecchi amici con storie in comune. E nonna Livia, che torna a casa sempre ben dopo la fine dell'orario di lavoro, per dare ascolto anche all'ultimo, saluta tutti a gran voce, mi prende per mano, mentre mi accompagna su quella Piazza e dai compagni di gioco. E nel dare ascolto anche a me... Cosa volevi dirmi? Il più delle volte è un Non ricordo più! la mia risposta prima di correre sul prato con gli altri.
E Livia non è la sola in quegli anni a sentirsi infermiera, anche se molto generica come tutti, anche fuori dell'orario di lavoro, seguendo il bisogno degli altri. Ogni infermiera che in quegli anni ha imparato ad usare la siringa per iniezioni, di quelle di vetro, ne tiene in casa sempre una pronta,  bollita per ogni evenienza e a richiesta. E nel periodo delle influenze e dei malanni invernali sempre pronta a girare da una casa all'altra a martoriare culi di grandi e di piccini, quasi sempre gratis.
Zia Adriana è una di quelle, chiamate quando in ballo ci sono culi delicati di bambini. A me tocca quasi sempre lei, a volte tata Ines quando c'è. Sempre sorridente e generosa nei confronti di noi nipoti, e carica di attenzioni ma anche di consigli e particolarmente ferma in raccomandazioni quando in ballo c'è il Sanatorio. Non vi soffermate a parlare con i malati! Passate dalla scorciatoia accanto a Pellegrina per andare in Pian delle Fornaci! Se dovete per forza passarci davanti, mi raccomando di corsa, senza respirare! E noi ci passiamo sempre di corsa, trattenendo il respiro e turandosi anche il naso talvolta, pur di farla contenta. Ma non sempre è facile passare oltre. Difficile rifiutare un piccolo favore, una commissione innocua, da sbrigare in pochi minuti. Spesso si tratta di fare una capatina all'appalto dal Giorgi, per una cartolina con francobollo, o per qualche sigaretta comprata di soppiatto. Ma non comprate loro mai sigarette. Gli fanno male!  Io non gliene ho mai comprate. Ma i più grandicelli li vedo passare, sigarette in una mano e cingomma nell'altro, ricompensa della commissione. Zia Adriana severa nei nostri confronti, ma altra pasta quando è in servizio al Sanatorio, sempre pronta al sorriso e allo scherzo sia con i malati sia con le colleghe di reparto. La ricordo bene l'anno del Carnevale, probabilmente realizzato anche con la collaborazione di zia Adriana e degli altri infermieri di reparto, e con il consenso palese del dottor Bellini, responsabile di reparto. Ricordi forse sbiaditi i miei, legati solo ad alcune foto con al centro Zia Adriana nella fase di elaborazione del progetto. Ricordi vivi invece quelli di Giorgio, di 5 anni più grande di me, che condivide con me, quasi suo malgrado...

...ormai mi hai costretto a collegarmi con la mia memoria storica, penso...mi viene violenta un'altra esperienza di vita, cruda, umanamente molto intensa : "Il sanatorio"...per il popolo "I tubercolosi". Quanto potrei scrivere di questi uomini vaganti nel dolore! Un cenno: un carnevale si erano fatti delle enormi maschere di carta pesta colorata. Artigiani abili, gente di mare, fumatori e bevitori a tempo continuo. Ah!...quel percorso intorno alla piazza di santa Caterina. Un silenzio inquietante nel sole freddo di quel pomeriggio. Come ridevano le labbra rosso fuoco di quelle maschere, come ridevano sopra quei pigiami incolori...!!!!

E quel color rosso ritorna con prepotenza nella memoria di Giorgio a ricordo, mentre mi racconta
...se non rammento male... tu sai delle sirene delle ambulanze a quel tempo. Tu rammenti il clakson ininterrotto che s'avvicinava come un drammatico annuncio ogni volta all'ospedale. Ti ricordi com'era via Bagnoli in quelle circostanze ...ti rammenti bene? Un pomeriggio d'estate (credo) suonò ininterrotto il clakson di un camion diretto verso l'ospedale. Forse era l'ora di cena, perchè mi affacciai alla finestra di cucina insieme a Giovanna, mentre quel clakson s'avvicinava, tante teste alla finestra ad interrogarsi: "ma che è successo? Dev'essere un incidente grave!" e via dicendo. Anche sulla strada c'era molto popolo, i bambini già correvano verso l'ingresso dell'ospedale per essere i primi a vedere e a sapere. Vidi la sagoma del camion verso il ricovero. In un attimo passò sotto la mia finestra. Quando vidi sullo 'scassi' una composizione drammatica: una figura distesa, tutta insanguinata nel viso e sul corpo. Ricordo un uomo che gli sosteneva il capo. Aveva i capelli grigi, indossava un panciotto, stava seduto a fianco, le teneva un braccio dietro la vita e nella mano libera stringeva un drappo o uno straccio con cui tamponare, assorbire il flusso di sangue. Era Cionce ad assistere la moglie vittima di un incidente. Un flash nitido e partecipato nella mente e nel cuore. Spesso, quando dipingo soggetti sacri come la deposizione di Cristo, "il compianto di Cristo morto", mi passa per il pennello quel sentimento forte in ricordo della morte della moglie di Cionce, che mi compare oggi in una composizione umana intrisa di dolore che vedo nitida e sento forte ancora adesso.

Per noi bambini di Piazza, quell'immagine non è una delle tante, alcune anonime passate velocemente, pietosamente sottratte alla nostra vista dagli infermieri del Pronto Soccorso, e noi portati via da quelli, tra parenti o conoscenti, casualmente negli immediati paraggi, al sentore di gravità dell'incidente e alla vista del sangue. L'immagine di Cionce, così diversa da quella immacolata del gelataio, quel giorno, oramai vicino all'ora di cena, a piazza quasi vuota, colpisce solo alcuni, quelli che abitano in Piazza come Franco, che affacciato alla finestra intravede solo a tratti quella figura femminile insanguinata. Nonno Nuti, che mi ha seguito in piazza, fa in tempo a strattonarmi verso casa, prima che quella figura tutta insanguinata, per mano di Vittorio e Ilio, venga scaricata  dal cassone. Per me è, anche nei ricordi attuali, una fugace figura intrisa di un rosso intenso e un'allibita espressione, uno sguardo allucinato, gli occhi persi nel vuoto, quelli di un Cionce triste, che sembra aver smarrito quel sorriso che gli sta a pennello, ma non quel giorno.
Poi nei giorni successivi, la mancanza di quel triciclo, carretto per i gelati che non arriva, né presto né tardi, come a dichiarare chiuso un ciclo, unico, irripetibile.


Ma la vita che continua, si annuncia con l'arrivo in servizio di quelle infermiere partite dalle Colline, come la Taddeini, la Tamburini, la Zani, la Sagrina... gruppo che va a ingrossarsi strada facendo, raccattando per la via quelle del Poggio e di Sant'Andrea, e gli addetti alle cucine o alle manutenzioni, tutti a turno unico di giorno, e tra questi il Nencini, il Soldatino, Centolire, il Mannucci, il Vezzosi e altri ancora... poi, quando i giochi sembrano esauriti, lo senti Cionce che ripete il suo verso. Lo riconosci da lontano, lui e il suo carretto, e la sua cantilena solita, ti chiama ancora 'fegatino' anche se sembra aver smarrito il sorriso solito, mentre cerca di riprendere il cammino interrotto. Davanti all'entrata ferma il suo carretto. Baggiacco con la sua borsetta d'ordinanza, sale da qualche parte a fare la barba a qualcuno, o vivo o morto. Il frate cappuccino, esce di cappella con gli oli sacri in mano per l'estrema unzione. Suor Vincenza, spalanca la finestra del guardaroba, il ferro da stiro in pressione, si mette a stirare lenzuoli e teli da bagno, mentre in cucina la cena della sera è già al fuoco. Nulla sembra cambiato, si cena tra le 17 e le ore 18.

La scritta "Spedali Riuniti"
sulla facciata dell'Ospedale di San Miniato
Foto di Francesco Fiumalbi

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