giovedì 16 aprile 2015

G. RONDONI - UN CRONISTA POPOLANO AI TEMPI DELLA DOMINAZIONE FRANCESE IN TOSCANA

INTRODUZIONE a cura di Francesco Fiumalbi

Giuseppe Rondoni (San Miniato, 17 novembre 1853 – 16 novembre 1919), già Direttore della Miscellanea Storica della Valdelsa e Presidente dell'Accademia degli Euteleti, è senza dubbio una figura molto importante per i suoi contributi sulla storia sanminiatese.

In questo post è proposto un suo articolo dedicato ad un periodo molto particolare della vita all'ombra della Rocca, ovvero al tempo della dominazione francese in Toscana. Rondoni coglie l'occasione della ricerca partendo da un manoscritto raccolto da Antonio Vensi, cioè la narrazione prodotta da Niccola di Tommaso Gagliardi (San Miniato, 1777 - 1856). Il "diario" abbraccia il periodo compreso fra il 1799 e il 1809, e rappresenta un documento molto interessante poiché risulta essere una testimonianza diretta, seppur influenzata dal punto di vista particolare dell'autore, di un momento significativo della storia toscana e sanminiatese in epoca moderna.

Vale la pena di ricordare che sull'argomento sono stati pubblicati anche due testi più recentemente. Il primo, collegato ad una mostra, è il volume San Miniato giacobina e napoleonica (1796-1799), curato da Valerio Bartoloni, Comune di San Miniato, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 1997. Il secondo è quello curato da Manuela Parentini, San Miniato fra illuminismo, rivoluzione e conservazione, FM Edizioni, San Miniato, 2001.

«Archivio Storico Italiano», Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892,
G. P. Viesseux, coi tipi di M. Cellini e C., Firenze, 1892, frontespizio

Trascrizione di G. Rondoni, Un cronista popolano dei tempi della dominazione francese in Toscana, in «Archivio Storico Italiano», Serie Quinta, Tomo X, Anno 1892, G. P. Viesseux, coi tipi di M. Cellini e C., Firenze, 1892, pp. 64-87. [AVVERTENZA: con il colore blu è indicato il numero della pagina; le note, a piè di ogni pagina sono proposte tutte in fondo al testo].

[064] UN CRONISTA POPOLANO DEI TEMPI DELLA DOMINAZIONE FRANCESE IN TOSCANA

I
Il recente libro di Apollo Lumini La reazione in Toscana nel 1799 (01), ed un bello studio del Masi Il 1799 in Toscana (02), confermando quanto siano importanti e desiderate le ricerche intorno a quel tempo memorabile, e richiamandovi l'attenzione degli studiosi, m'inducono a sperare che non riuscirà affatto inutile ed inopportuna la notizia di questa Cronaca, o piuttosto Diario delle cose occorse in S. Miniato al Tedesco (03), anche perché rappresenta le opinioni ed i giudizi non di un uomo addottrinato e partecipe de' pubblici affari, di un prete, di un nobile, di un professionista; ma di un popolano comodo ed operoso, che vive oscuramente in un angolo di una piccola città di provincia, e che ha poca o punta cognizione precisa degl'ideali e de' grandi fatti contemporanei. Indi gli effetti della grande rivoluzione sono apprezzati da un punto di vista esclusivamente popolare, toscano, provincialesco e samminiatese. Ed è curioso, o m'inganno, udir quasi la parola viva di questo popolano narrare le impressioni genuine dell'animo suo, ed è importante conoscere in modo schietto ed immediato che cosa pensarono nei [065] più umili centri, nella quiete sonnacchiosa delle più piccole città, nelle borgate, nelle campagne i più umili sudditi di Ferdinando III, e cioè il maggior numero, sebbene il più trascurato dagli storici ed il meno illustrato dai documenti, dinanzi allo spettacolo di vicende che turbavano spesso gl'ingegni più vasti, gli uomini più esperti e potenti; vedere partitamente il concetto che il popolo fra noi si era formato della grande rivoluzione.
Poiché a questo proposito il materiale è assai scarso, dacché se conosciamo a sufficienza quanto accadde ne' centri principali, ignoriamo quasi totalmente ciò che avveniva nei secondari (04), valda questo tenue contributo almeno come eccitamento ad investigare con miglior successo nelle memorie e fra i documenti dei piccoli comuni, talora così neglette pur troppo, anche nella colta Toscana, dalle stesse autorità municipali, che sembrano perfino ignorarne la importanza per la storia della nazione. La storia non sdegna o respinge alcuno fatto, verun particolare: «non ci sono piccoli avvenimenti nella umanità, né foglie piccine nelle vegetazione» (05).

II
I Ricordi del nuovo governo francese in Toscana, o anche Notizie di San Miniato (così l'autore l'intitola), vanno dal febbraio 1798 al 9 luglio 1809; e sono preceduti da una breve notizia, della quale or ora diremo.
Dal 22 luglio 1799 al 25 agosto dello stesso anno, per la mancanza di un foglio, esiste una lacuna nel manoscritto, del quale ci limitiamo a porgere notizia possibilmente accurata [066] riportandone i passi più notevoli, con qualche parola di spiegazione e di collegamento, e resecandone il troppo ed il vano. L'autore, avversissimo ai giacobini, non si palesa; ma sappiamo per altro che fu Niccola di Tommaso Gagliardi, nato e vissuto in S. Miniato dal 1777 al 3 gennaio 1856, giorno della sua morte. In gioventù tenne dalle 50 alle 100 filatrici, ed impannava mezzelane, frustagni, eppoi cotoni; si pose anche a vender cera, ed in ultimo fu paratore di chiese. Vivono ancora i suoi figli (06).
Un cenno sulla venuta in S. Miniato del generale Buonaparte fa quasi da proemio al lavoro, e merita proprio qualche osservazione preliminare. E' noto che durante la immortale campagna del 1796 Napoleone, colla divisione Vaubois, per Parma, Modena e Reggio calava in Toscana, e, toccata Pistoia e traversato l'Arno a Fucecchio, si recava a Livorno. Di qui andava a Firenze, proseguendo per Bologna. Appunto nel viaggio da Livorno a Firenze si fermava a pernottare a S. Miniato, ed anche di questo gli storici han voluto dire e saper le ragioni. Il Marmont, che gli era compagno, nelle sue Memorie scriveva: «la famille Bonaparte est originaire de Toscane; une branche y ètait restée a S. Miniato, petite ville entre Pise et Florence; nous, nous y arretàment de l'éclat que son cousin donnalt à son nom; mai il voyait d'un autre oeil que nous cette gloire de la terre, et il aspirait à la voir prendre ses racines dans le ciel. Un Bonàparte avait été déclaré bien-heureux par je ne sais quel pape, e' était le premier pas vers la canonisation; la chanoine aspirait à le voir sanctifié; il prit le général en particuller poir le suppller d'employers son influence, supposée sans borne, pour obtenir ce titre de gloire pour la famille. Bonaparte rit beaucoup du desir de son cousin, qu' il ne satisfit pas, et il aima mieux obtenir du pape, dans le négociations postérieures, quelquels milions et quelques tableaux de plus, que le droit de bourgeolsie dans [067] le ciel pour un homme de sa mason» (07). Dal granduca però ottenne pel canonico una commenda di S. Stefano, che molto lo soddisfece (08). Il Marmont narro questo aneddoto samminiatese del Buonaparte per dimostrare ch'egli serbò sempre affezione per i fatti e le persone che gli ricordavano i principli della sua grandezza. «Tutti i nomi di quel tempo, e di un'epoca anteriore (così il maresciallo) non hanno mai perduta la loro efficacia sopra di lui». Ne inferisce che la natura gli aveva dato un cuore riconoscente e benevolo, ed anche sensitivo, e che ingiuste sono le opinioni contrarie. Invece il Michelet insinua che il padre di Napoleone scoprisse il ricco e credulo canonico di S. Miniato, e lo persuadesse a riconoscerlo per parente, procacciandosi in tal guisa patenti di antica nobiltà fiorentina. Poi Napoleone, «puor faire sa cour aux prêtres, alla voir ce bonhomme de chanoine dont il disalt êtres parent, et comme lui descendu d'un saint du moyenâge. Cela pouvant avoir un bon affet en Italie, en France, dans tout le parti retrograde» (09).
L'anonimo Samminiatese, autore di una Storia Genealogica dei Buonaparte, aggiunge che il canonico di nome Filippo si trattenne a lungo coll'illustre parente, «mostrandogli tutte le carte e diplomi gentilizi dell'agnazione, dei quali Napoleone mostrò di fare gran conto; ma quelli sopra cui il rispettabile canonico maggiormente mostrò il suo particolare interesse, furono i comprovanti le virtù eroiche cristianamente praticate dal venerabile Fra Bonaventura cappuccino, loro antenato, che viveva col declinare del secolo decimosesto... soggiungendogli ch'esso generale doveva le sue vittorie, i suoi trionfi, la sua salvezza all'intercessione di questo servo di Dio» (10). Secondo lo Zobi, i Samminiatesi avrebbero pubblicamente festeggiato il Bonaparte; ma di feste nei [068] documenti non trovo menzione alcuna, se non vuolsi ammettere come tale lo stanziamento della somma di 871 lire, fatto dal Comune il dì 28 luglio del 1796, per il passaggio delle truppe francesi la sera del 29 giugno, mentre di lì a poco, essendo frequente il passo di quelle milizie, si elegge un Commissario comunale, il sig. Prospero Badalassi, per provvedere ai danni dai (11). Infine la tradizione orale, ormai languidissima, ricorda solo che il Bonaparte, di notte, con molti generali, fra i quali il Murat, smontò alla casa del canonico, essendo la piazza tutta piena di soldati. La casa, ora Gazzarrini, sorge presso la piazza Bonaparte, già S. Sebastiano, e vi fu apposta ai giorni nostri un'epigrafe.
Tornando al nostro Diarista, pel quale i giacobini sono poco meno del diavolo, el si compiace tuttavia che la famiglia Buonaparte o Bonaparte sia originaria del suo paese. «Era oriunda samminiatese, perciç nel ritorno che il generalissimo fece da Livorno (son sue parole) passò di S. Miniato che fu nel fine del mese di Giugno del 1796, circa le ore 11 della notte (29-30 giugno) con carriaggi e cassa militare, accompagnato da alcuni generali, e da circa 50 soldati a cavalo, e andò a smontare al palazzo del molto reverendo Sig. Canonico Buonaparte, suo parente; nel giorno dopo ripartì, e andò a Firenze». Questa testimonianza circa la origine del Bonaparte, data come cosa nota e certa in S. Miniato, assai prima che si accendessero le dispute intralciatissime dei genealogisti, ha certamente un valore, e conferma le conclusioni dell'Anonimo, che pur non la conobbe, e che sostenne samminiatesi di origine i Bonaparte di Corsica (12), contro il Gerini ed il Passerini, che a dir vero almanaccò molto, con poco o nulla concludere, perché li vuol derivati dai Cadolingi conti di Fucecchio, eppoi da Sarzana, negando o interpretando un po' arbitrariamente memorie autorevoli. Anzi ricordo che il [069] compianto Cesare Guasti, da me interpellato sull'argomento, notava che il Passerini stesso finì per non essere molto persuaso delle sue stesse osservazioni, e che negli ultimi tempi si era quasi affatto ricreduto. Certo si è che in S. Miniato abbiamo una serie di documenti comprovanti la esistenza dei Bonaparte, dal 1272, anno nel quale Guidoletto notaio del fu Ildebrandino di Buonaparte, sindaco del Comune di S. Miniato e capo dei ghibellini fa la pace col vicario angioino, fino al secolo XVIII ed al canonico Filippo. Le tombe poi della famiglia erano nella cattedrale fino dal secolo XIV (13), e nel convento di S. Francesco. Gli stessi Bonaparte, come risultava dalle carte domestiche, si ritennero sempre originari di Toscana (14), e più [070] specialmente di S. Miniato e di Firenze (avvertiamo che molte famiglie nobili samminiatesi vennero fatte partecipi della nobiltà fiorentina e viceversa), e Napoleone, se da generale visitò il canonico, da Imperatore a Gino Capponi, che gli veniva presentato a Parigi, disse tra francese ed italiano: «ch'egli aveva toscana origine, e che i suoi erano signori di Samminiato. Trovarono, soggiunse, alla biblioteca una commedia scritta da un mio antenato, e volevano ripubblicarla; ma io non volli per esser lubrica» (15). Il figlio della rivoluzione francese teneva forse a discendere da una famiglia di giudici, legisti e sacerdoti, di antica e provata nobiltà? Ripensò egli talora con affetto, come vuole il Marmont, a que' suoi oscuri parenti, e forse nell'isola sconsolata del suo esiglio ricordò le verdi colline ov'ebbe il suo nido la tragica prole?

III.
Mi si perdoni la digressione, e passiamo al vero principio del Diario ed alla sua prima notizia importante: «Il dì 26 Marzo 1799 nel Salone del Sig. Carlo Gucci furono incominciate dai giacobini e le sessioni e le adunanze, dove si trattava di soppressioni di conventi, o vendette degli uni contro degli altri, e l'ingrandimento dei giacobini colle sostanze delle chiese, e conventi e possidenti». Nove erano in S. Miniato i principali giacobini, fra i quali un Simone Cardi Cigoli, discendente del pittore, del quale il Bracciolini scriveva: «tuo pennel parla, e la mia lingua tace». Il dì 31 marzo ognuno «si messe con gran sollecitudine la coccarda di tre colori, rossa, turchina e bianca. Alcuni di S. Miniato del partito francese proposero di piantare l'albero prima che [071] alcun francese venisse. Infatti il 2 Aprile, giorno di mercato, fecero cavare nelle grotte presso il convento di S. Martino un alloro colle barbe e frondi; e lo piantarono in mezzo alla piazza di S. Domenico, dove piantato che fu il cittadino Michele Buonfanti fece al popolo, che vi si era affollato per la curiosità, un breve discorso in lode della libertà ed eguaglianza, e del suddetto albero, chiamato da quelli scellerati giacobini l'albero rigeneratore, con molte altre cose contro dei principi chiamati col nome di tiranni». Preparato debitamente il terreno a dì tre aprile, ecco apparire cinque ufficiali francesi, fra i quali un Giuseppe Buonfanti di S. Miniato, ed un certo Canesi di Livorno, che aveva parenti nel paese, ed eccoli ordinare che s'innalzasse un altro albero sulla piazza del Seminario. «Lo stesso giorno fu mandato ai conventi l'ordine che il dì appresso, in occasione dell'alzamento dell'albero facessero delle generose elemosine ai poveri, come pure che si atterrassero e che si mettessero in pezzi tutti gli stemmi ed armi... ed il tutto fu atterrato in poche ore, e questo fu fatto subito dopo attese le minaccie e terrore che avevano incusso ad ognuno i suddetti francesi e giacobini». Innanzi si erano aboliti anche i titoli «che però o poveri o ricchi tutti egualmente erano cittadini».
«Inoltre fu da Michele Vannini ed altri giacobini, sotto la presidenza dei cittadini Simone Cardi e Dario Mercati, atterrata e messa in pezzi la statua di marmo che stava in mezzo alla piazza del Seminario: la legarono per il collo con una grossa fune, e la tirarono a terra con gran forza». Rappresentava Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II dei Medici, generosa benefattrice dei Samminiatesi. Erasi infatti adoperata affinché la terra, ch'era di suo appannaggio, divenisse sede di un vescovado, e fosse dichiarata città. L'avea visitata amorevolmente, ricevuta ed ossequiata dai nobili e dal popolo, mentre il Gonfaloniere, certo Anchise Seragoni, che avea preparato un fiorito discorso, soffocato dalla commozione, ruppe un un pianto dirotto, né seppe pronunziar parola. Vi si era trattenuta due giorni, dimorando nel palazzo Grifoni (ora Catanti), concedendo udienze, erogando sussidi in opere di beneficenza, e liberando carcerati. La statua, opera della riconoscenza, era stata scolpita dal fiorentino susina, il quale effigiò la granduchessa collo scettro nella [072] mano destra, e colla sinistra posata su di un leone, emblema della città, sostenente colla zampa levata lo scudo mediceo (16). Ora qual mutazione di tempi! La immagine della benefattrice fu spezzata a ludibrio di popolo, ed i rottami rimasero poi lungamente buttati in un canto, entro una specie di cantina o di magazzino, né so bene se vi si trovino ancora. «Fu messa in pezzi anche la colonna della Berlina, situata in fondo alle scalinate che conducevano al Tribunale», dove sorgono adesso la Sottoprefettura e la Pretura. La sera vi fu «illuminazione per tutta la città». Dov'era la statua, si attese il dì 4, al piantamento dell'albero «ordinando che ognuno adornasse le finestre e gli usci di rame di alloro, e che ognuno ne portasse un ramo al cappello; ed infatti in meno di due ore tutta la città sembrava un bosco di alloro, poiché ognuno andò nelle ragnaie de' padri Agostiniani e dei Grifoni, a tagliare senza discrezione, né i padroni potevano impedirli perché dicevano che tutto era in comune, e ch'era libertà di fare ciò che volevano. Finalmente, alle 10 del mattino, fu piantato un grosso e lungo albero tinto a tre colori, ed in cima vie era un berrettone alla militare, con due bandiere e lance tricolori, al suono di violini ed altri strumenti, ed al canto di alcune canzonette chiamate patriottiche», mentre «tutti i giacobini, ed altre poche persone che per timore figuravano di essere giacobini, si davano dei baci, e ballavano molto intorno al detto albero, come tanti matti». In tale occasione il cittadino Giuseppe Buonfanti «fece al popolo un energico discorso in lode della nuova repubblica e della libertà ed eguaglianza e dell'albero chiamato da quelli scellerati e sacrileghi albero sacro, col quale discorso inculcava odio alle monarchie». Fu tanto energico, che l'oratore «per essersi tanto affaticato stette 24 giorni il letto colla febbre». Verso mezzogiorno terminava la cerimonia dell'albero, ed il popolo si affollò alle porte dei conventi per l'elemosine. De' conventi in S. miniato ve n'erano tanti, nonostante la soppressione di Pietro Leopoldo, che debbono essere state copiose. [073] Alcuni conventi fecero una distribuzione di pane, ed altri dettero ai poveri una crazia a testa: spesero 15 scudi per ciascuno. La sera «gran festino nella Cancelleria, e generale illuminazione con gran concorso di popolo». Né basta. I giacobini vollero anche il Te Deum, e già fino dai giorni innanzi gli ufficiali francesi, fra i quali (così il diarista) un ebreo, erano stati dal vescovo affinché lo facesse cantare in Duomo, «col suono di tutte le campane», sempre in onore e gloria dell'albero, ed «in ringraziamento» della sua erezione; dell'albero, che dovea certamente stupire, americano di originai e giacobino di costumi, in tutte quelle feste e pompe cattoliche. Strani e curiosi contrasti! Mentre da noi certi rivoluzionari del popolo (il Vannini ed altri erano popolani) ragionavano presso a poco come il Babbeuf e i Comunardi, gridando «che tutto era in comune, e ch'era libertà di fare, ciò ce volevano», non sapevano poi fare a meno di mendicare, secondo le inveterate abitudini alle porte dei conventi, e volevano, come la plebe napoletana, far giacobini i Santi, il Duomo e le campane, piuttosto che rinunziarvi. Se non che il pio scrittore si affretta ad osservare «che questi Francesi entrarono in chiesa al Te Deum, celebrato il dì 5, e andarono al posto destinatogli (sic) senza aver fatta alcuna genuflessione; ma appena si cavarono il cappello, poiché vi vennero per una pura apparenza esterna».
S'intima la consegna delle armi «sotto la pena pei disobbedienti di esser fucilati come nemici della patria»; eppoi mescolando sempre le prepotenze, le minaccie e le provocazioni colle feste, un altro festino in Cancelleria, dove «un uffiziale francese di nazione ebrea (sic) s'innamorò di Elisabetta Gori samminiatese, tanto che, terminato il ballo, andarono a sposare attorno all'albero della libertà all'uso della nuova repubblica francese, e senza veruna cerimonia della chiesa, e la mattina partirono tutti i Francesi insieme colla detta Gori». E forse fu quello il solo matrimonio repubblicano in S. Miniato. «Tutta la facciata del muro esterno del Tribunale era ripiena di stemmi dei vicari che vi erano stati, all'uso antico. Perciò il magistrato detto dei Francesi la Comunè (il Municipio riformato da loro) messe la mattina del 6 Aprile cinque muratori... e levarono tutti li stemmi ed armi, risarcirono il tutto e lo imbiancarono. [074] Per fare il detto lavoro vi messero quindici giorni (17). A tutte le piazze fu dato un nuovo nome», e così «la Piazza del Seminario si chiamò Piazza Nazionale, quella di S. Domenico della Rigenerazione; quella del Grifoni della Libertà; quella di S. Sebastiano della Eguaglianza; e quella di S. Agostino dell'Ospedale». Si aprirono le inscrizioni volontarie «alla truppa nazionale»; ma, se diamo retta al Diarista, molti si dettero in nota «con animo, quando fossero chiamati a prender le armi, di scappare per le campagne e boschi».
E' innegabile che in S. Miniato la baraonda e le provocazioni dei giacobini furono assai gravi, e che alcuni credevano o dettero appigli a far credere ch'eguaglianza e libertà suonassero licenza e facoltà di appropriarsi l'altrui. E' tradizione che uno di loro, un popolano, già vagheggiasse di prendersi una villa, ed a questo allude la strofa di una canzone riazionaria riferita dal notro:

Libertà lui la gradìa
Perché ben gli convenìa
Villeggiare alla Bastia;
Ma sbagliò proprio il furfanto
Il disegno, l'andò errante
Sui villaggi in Paesante (18)

Ora è più facile immaginare che descrivere l'effetto di simili provocazioni sugli animi di persone, nate e vissute nelle pacifiche casette fra una chiesa ed un convento, e sui contadini, tenaci conservatori de' sentimenti e delle pratiche avite; in un paese quieto, agricolo, raccolto, devoto, com'era Samminiato co' suoi nobili ed i suoi frati. Qual meraviglia che, trovandosi a disagio, e come fuori dell'ordine suo naturale, fra quei tripudi e scenate liberalesche, alla minima occasione, ad ogni più lieve indizio, anche senza ammettere una cospirazione riazionaria, [075], insorgesse, e direi quasi ritrovasse se stesso? Se cospirazione in quei moti della Toscana vi fu, com'è accertato dai documenti; in molti luoghi, in buona parte i moti furono anche l'effetto del sentimento popolare, spontaneo, irrefrenabile, e questo mi pare che si dimentichi un po' troppo negli ultimi studi su quegli avvenimenti, tutto o quasi attribuendo ai preti, ai settari, e perfino a Pio VI, ch'era, o m'inganno, in condizioni tali, nella dimora a Siena, da non volere, né potere, e forse da non avere interesse di farsi centro di agitazioni e d'intrighi. Il Brigidi, credo pel primo, affermò le mene pontificie, senza darne prove concludenti, ed altri, non so come, lo seguirono; ma torniamo a S. Miniato, dove la sollevazione contro i Francesi fu più che altro moto spontaneo di popolo e soprattutto dei campagnoli.

IV
Se prestiam fede al diarista, la sommossa avvenne due giorni prima di quella celebre di Arezzo. Sia un errore, una svista? Dal contesto e dal seguito del racconto non mi sembra, talché può ritenersi il primo sintomo de' fatti gravissimi che si andavano maturando. Ebbero dunque S. Miniato, o meglio il suo contadiname e tutta la regione circostante il primato cronologico dei moti riazionari del '99 in Toscana! (19) Il fatto si è che «in sera del 4 maggio la campagna che si scorge da S. Miniato pareva un'illuminazione... si sparse la voce che l'imperatore colla sua armata era vicino a Firenze, perciò, nata una sorprendente sollevazione contro i Francesi, in meno di un'ora si adunarono in S. Miniato più di 6000 contadini tutti armati, chi con forconi, chi [076] con accette, pennati, bastoni ed alcuni schioppi ch'erano stati sotterrati, allorché i Francesi fecero la requisizione delle armi, ed in tre colpi di accetta atterrano i due alberi della libertà, quali furono con fischiate trascinati per tutta la città, e ridotti in pezzi ed abbruciati sulla piazza dell'Ospedale». Poi nuove illuminazioni, e fuochi di gioia fin sul poggio della ròcca, «e per tutta la notte un continuo girare al suono dei tamburi e violini, gridando: – viva l'imperatore, viva Ferdinando III, viva l'armata austriaca –». Si corre alle case dei giacobini «per ucciderli ed abbruciarli i loro beni; ma essi al primo lampo della rivoluzione scapparono, e si rifugiarono alcuni per le macchie di campagna come le volpi, ed alcuni che non furono a tempo a scappare si rifugiarono sopra i tetti, e i palchi morti delle case». Il popolo «non potendo sfogare la sua rabia contro di essi, si pose ad abbruciare usci e finestre, tavolini, seggiole e quanto trovava», talché «non restarono che le muraglie delle case ed i tetti». Al Cardi però, per le preghiere di due sacerdoti della famiglia, non ruppero che le vetrate; né grave danno fecero alla casa Buonfanti. Insomma anche in questo caso i ricchi furono risparmiati, ed i poveri ebbero la peggio.
«Non può descriversi a pieno lo spettacolo ed il gran fuoco ch'era per le piazze e per le strade, e la quantità grande del popolo con fiaccole e granate accese, talmenteché non si poteva passare per le strade; vero le ore 10 della sera cominciò a calmare un poco il chiasso ed il tumulto per un accidente... entrarono cioè 25 dragoni a cavallo, e si schierarono in piazza del Seminario». Simili per la montura ai Toscani, il popolo li credé austriaci, e si serrò loro attorno, acclamandoli: essi rispondevano agitando il fazzoletto, e gridando evviva. Chi sa quanto durava l'equivoco, quando «un certo marchese Alli-Maccarani nizzardo, stanziato da qualche anno in S. Miniato, e che si credeva sospetto di giacobinismo», si accostò ai dragoni, e in francese disse loro che partissero, perché potevano correre pericolo di esser fatti a pezzi. Non se lo fecero dir due volte, e fuggirono. Quando il popolo gridò: «son francesi, ammazziamoli», e corse loro dietro, essi «fuggivano disperati». Sotto Cigoli smarrirono la strada; infine la ritrovarono; ed era troppo tardi per inseguirli.
[077] I contadini reclamavano le armi, già consegnate ne' giorni precedenti; dapprima non si volevano rendere; ma bisognò cedere. Nella notte molti di loro rimasero a guardia di S. Miniato, e il dì seguente (5 maggio) ingrossati di numero, tornarono alle case dei giacobini, e finirono di saccheggiarle. Se non seppero fare a meno del vescovo e delle sacre funzioni i giacobini, immaginate questi altri! Anzi il vescovo fece scuoprire l'immagine del Crocifisso, la più venerata dai Samminiatesi, nella chiesa di questo nome, e acese sul baluastro della chiesa predicando «la pace, la religione e la mansuetudine». Era monsignor Brunone Fazzi, dotto e pio veramente, e che, fra tanti preti faziosi ed intolleranti, seppe rimanere al suo posto, presso i suoi altari, intento solo al suo divino ministero ed all'opera benedetta della conciliazione. Tra gli spari di moltissimi schioppi ed il suono delle campane, dié la benedizione, e i contadini meno inferociti cominciarono a girare per la città con stemmi e bandiere granducali, e «con gran festa e gioia». Abbruciate tutte le coccarde francesi, uomini e donne si misero coccarde gialle e nere, e anche granducali, bianche e rosse.
Il 6 maggio, mentre in Arezzo faceva la fatale comparsa la carrozza misteriosa, occupata Empoli dai Francesi, il Vicario vescovile, ch'era un Migliorati, il can. Cardi, il cav. Giuseppe e il sig. Filippo Morali, trepidanti per la città natale, andavano a chieder perdono pel popolo, insinuando ch'erano stati i contadini, e non i samminiatesi autori del tumulto. Il comandante di Empoli rispose netto che non poteva perdonare, e che si rimettesse l'albero. Si affrettarono ad obbedire, innalzando però «un puro stile e piccola bandiera». Si riprese anche la coccarda di Francia, e i giacobini tornavano a farsi vivi, fra i quali il Buonfanti, che andava dicendo: «dove sono questi guerrieri della fede, dove sono questi ladri della religione, che rubano per la fede e per la religione! I Francesi non fanno queste cose». Il vicario di governo, certo Leoni, fu destituito «perché non era andato a calmare il popolo la sera della rivoluzione». I Francesi, esasperati dal vacillare della fortuna, non rispiarmarono a S. Miniato contribuzioni, requisizioni e processi. Presero in ostaggio il vicario vescovile Migliorati, un dott. Caponi ed i signori Giuseppe e Filippo [078] Morali (20); «né si può descrivere il rincrescimento ed i pianti di tutte le persone dabbene per la perdita dei suddetti signori». Né basta; da S. Miniato, ch'è quasi a metà strada tra Firenze e Livorno e tra Firenze e Siena, passavano di frequente soldati; ed il Diarista nota che si ponevano ad alloggiare pei conventi, e che sfondavano gli usci delle cantine e dei refettori, mangiavano e dormivano a ufo, cacciando i frati dalle celle, e portandovi le proprie mogli. Il 19 maggio si piantò di nuovo e solennemente, alla presenza della magistratura municipale, di tutti gl'impiegati, di una banda militare e di una schiera di dragoni a cavallo, «l'albero scellerato detto da loro sacro». La cerimonia ebbe luogo sulla piazza del Seminario «adornata di setini e festoni di alloro», e costò al municipio più di 100 scudi «perché il comandante francese volle molti zecchini per aver fatto il discorso». Il nuovo vicario fu «un certo Carminiani del Piano di Pisa, giovane di gran talento e politica; ma giacobino perfettissimo». Si volevano feste ed applausi, ed alla povera gente si portava via il pane di bocca. Una volta accadde che, giunto l'ordine che dentro de ore si portassero viveri per 2000 soldati, che poi non si videro, «molti paesani che non trovarono il pane per le botteghe se ne dovettero andare a letto senza cena». Non è dunque a meravigliare che i volontari arruolati in S. Miniato trovassero varie scuse al momento della partenza, chiedendo aggiornamenti ed indugi «chi per gl'interessei di casa, chi per il padre, chi per la moglie... chi per andare a riscuotere denaro da un contadino». Il Buonfanti, che forse amava di farsi onore coi comandanti francesi, dové partire con soli tre di quei volontari per forza, ed anche di questi uno, vicino ad Empoli, si allontanò con una scusa, e tornò a casa, talché di 25 che dovevano andare a Firenze, ve ne arrivarono due, i quali, il giorno dopo, imitarono i compagni. Si ordinò pure la banda nazionale, ed anche il nostro Gagliardi vi fu ascritto.

[079] V.
Nel Diario abbiamo qui la lacuna già notata; passando dall'una all'altra mano il foglio andò perduto, né mi è stato possibile di ritrovarlo; non pare che vi si descrivessero orrori di reazionari, perché, a quanto mi è dato conoscere, in quel brevissimo perimetro cronologico, non ne abbiamo alcuna memoria, onde, fino a prova in contrario, amo credere, che la rivoluzione contadinesca, del 4 maggio sia stata l'unica in S. Miniato, che pare no imitasse le gazzarre abbominevoli, le selvaggie atrocità che funestarono Arezzo, Siena ed altri luoghi della Toscana. Il vescovo Fazzi ebbe forse in questo la sua parte di merito, e parte ve l'ebbe e molta il giusdicente, il quale, come vedremo, dispose a che la berlina non fosse occasione di stragi.
Atrocità non si commisero, ma non mancarono rappresaglie, scherno e crudeltà pei giacobini, de' quali sembra che i principali si fossero dati alla fuga. Nel giorno del Santo Patrono (S. Genesio, 25 agosto) di quell'anno terribile «si portarono col maggiore scorno per la città due fantocci che rappresentavano Giuseppe Buonfanti e Michele Vannini, al suono di violini e tamburi, ed in piazza di S. Domenico si abbruciarono fra gli scherni e le grida del molto radunato popolo. Si fece girare su di un carro trionfale l'arme del granduca, e si celebrò una processione col SS. Crocifisso, e con tutte le graterie e compagnie della città per le grazie ricevute»; vi furono discorsi, sonetti, grande illuminazione; «e le case del Sig. Carlo Gucci (già sede del club), del canonico Stefano, dell'Ansaldi e del can. Buonaparte potevano stare in Pisa la vigilia di S. Ranieri!». L'ospite di Napoleone che festeggia la ruina delle armi di Francia!
Si fecero parecchi imprigionamenti e bandi, coi quali s'imponeva «che nessuno temesse che il nemico tornasse ad infastidirci, essendo impossibile che la sua armata superasse quella dell'imperatore e de' suoi alleati; che se alcuno spargesse notizie in favore dei Francesi, fosse subito arrestato, sentenziato militarmente, eppoi impiccato».
Dalla Scala, fermata di posta, appié dell'altura di S. Miniato continuavano a passar soldati, ed in quei giorni erano i Russi che [080] richiamavano l'attenzione del nostro popolano. E sfido a non badarvi! Picchiavano di santa ragione i vetturali dai quali si facevano accompagnare per lunghi tratti di via, perché non riuscivano ad intenderli, talché mentre ordinavano una cosa, i poveri vetturali ne facevano un'altra. «I Russi non bevono punto vino, perché, se bevessero vino quanto copre un fondo di bicchiere, subito li fa ubriacare, che non conoscono né pure il loro comandante dal gran calore che li mette; il suo (sic) vitto è pane di semola e di biada della peggio che si trovj, il bere è acqua delle fosse; per minestra ogni 25 o 30, hanno due libbre d riso, che lo mettono in una caldana di quell'acquaccia a bollire un poco, eppoi un morso di pane, ed una romaiolata di quel brodo di riso senza punta carne. Lungo la strada i campi di rape che vi erano furono consumati dalla loro voracità; sbarbate che le hanno, le scuotono dalla terra, e così crude le manfiano, come se fossero pere preziose. Per dormire non si servono di paglia; ma dormono sulla nuda terra ancora che piova, come le bestie». Passano i Tedeschi, e chiedono barrocci; ma i barrocciai, sapendo di «esser picchiati forte» fuggirono tutti, «e i famigli del vicario non trovarono né vetturali, né proprietari che avessero barroccio». Il giorno dopo (era l'Ognissanti) tornarono i barrocciai; «ed il vicario fa loro sapere che facessero la solennità in casa; però il giorno dei morti dovessero andar tutti in segrete». Del resto bastava molto meno per compromettersi. Una signora, certa Prassede Gori-Bonfanti, di sera, da una finestra della propria abitazione confortò a voce alta i prigionieri che stavano nel noviziato di S. Domenico: «stessero allegri (le scappò detto); che i Francesi eran vicini». Fu subito catturata, di notte; ma, dopo otto o nove giorni fu liberata «con ordine venuto da Firenze». Era mutata bandiera, ma non sistema; e le requisizioni di lenzuola, coperte, letti erano continue; le fornivano i frati ed i possidenti.
Seguono le notizie delle condanne inflitte ai giacobini samminiatesi, alcune in contumacia, pronunziate dalla terribile Camera Nera del Cremani, sì dotto penalista sulla cattedra, sì iniquo nel tribunale. Trentotto furono in S. Miniato i processati, de' quali dieci vennero assolti, mentre per uno, il nobile Carlo Gucci, si dichiarò non esser luogo a procedere. Giuseppe e [081] Michele Buonfanti vennero condannati in contumacia ad un'ora di berlina, a tre anni di pubblici lavori ed all'esilio perpetuo; Michele Vannini, che fu preso, ad un'ora di gogna, a tre anni di Falcone a Volterra, all'esilio perpetuo ed al risarcimento dei danni dati al Comune; Giuseppe Marchionni alla gogna e a tre anni di pubblici lavori; Matteo Bianchini ad un anno di Falcone ed all'esilio perpetuo; Ascanio Franchi e Giuseppe Fiorini a tre anni di lavori pubblici ed all'esilio perpetuo; Dario Mercati e Leopoldo Bianchini a sei mesi di carcere e all'esilio perpetuo; Simone Cardi a tre anni di confine a Volterra. Zaccaria Brogi ebbe l'esilio a beneplacito dei magistrati; un Bulleri se mesi di esilio dal vicariato samminiatese; il dott. Girolamo Rimbotti 15 giorni di sequestro in casa. La punizione del canonico Stefani venne rimessa all'ordinario; e così pure quella del dott. Carlo Lottini, destituito dall'ufficio di maestro di belle lettere. Né vennero risparmiate le donne. La Prassede Buonfanti ebbe l'arresto in casa fino a nuovo ordine, e Maddalena Mercati due anni di reclusione nelle Malmaritate; ma era fuggita coi fratelli.
Brutto giorno per S. Miniato il 28 dicembre; vi fu l'orrida scena della gogna inflitta al Vannini e ad altri. «In questa mattina a ore 9 e fino a ore 10 sono stati messi alla berlina i soprannominati soggetti; il popolo che sapeva dal giorno avanti che sarebbero stati messi alla berlina fece gran folla; vi erano quattro squadre di birri; e non vi fu modo di potersi accostare. Furono messi a mezzo la scalinata del guardiolo, con una campanella al muro, e a questa legati; avevano il suo cartellone al petto, e dal vicario fu fatto il foglio e affissato; che non fossero molestati, che se non vi era quest'ordine, o non vi fossero stati tanti sbirri, non sarebbero tornati in prigione, perché i contadini li avrebbero ammazzati, e in questa loro penosissima ora furono tacciati delle più infami villanie, fischiate, battiture di mani, come il loro merito richiedeva... Perfino gli tirarono una paniera di castagnacci, e un contadino vidde che avevano la coccarda imperiale e toscana, disse che non erano degni di portare quel segno, e vedendo li sbirri che non potevano più contenere quella moltitudine, corse uno a levargli quelle coccarde. Il Vannini Michele non potendo stare più ritto, chiese una seggiola che gli fu portata, ma il [082] popolo cominciò a strepitare, e convenne levargliela, e stare ritto». Che ora di agonia pei poveri condannati!
I giacobini erano vinti, umiliati, oppressi; trionfava la buona causa; ma il danno e le vergogne duravano, ed aumentavano pur troppo. Lo stolto contadiname che imperversava intorno alla berlina, pativa la carestia. «A dì 16 di Gennaio sul mercato di Empoli fu venduto il grano di prima sorte L. 42 il sacco; il vecciato L. 27; il grano siciliano 26; le fave 32; la saggina dalle 16 alle 17 lire; e il pane valeva fino a 4 crazie la libbra (28 centesimi). Questo fu il ricordo che ci lasciarono i Francesi (esclamava il diarista), quando vennero in Toscana, perché non venendoci loro, non avrebbero avuto luogo di venirci le truppe imperiali; e il gran numero di soldati, e la raccolta scarsa ci portò a questo prezzo il vivere. Il magistrato elesse due per spianare il pane a conto della Comunità, e pensò di comprar grano a Livorno, decché i poveri braccianti si trovavano in grandi miserie». Poco li consolava certamente lo spettacolo di fraterie e compagnie che visitavano il Sacramento «esposto in cattedrale perché rendesse vittoriose le armate del nostro benefico imperatore Francesco II».
In Piazza del Seminario fu innalzata su di un piedistallo, a perpetua memoria, una ben adornata croce, dove era stato posto l'aborrito albero della libertà, l'odiosissimo emblema, dopo una processione solenne col vescovo, la compagnia della misericordia, i magistrati cittadini, e tutto il clero secolare e regolare. La piazza era parata con tappeti alle finestre, e vi era un altare e un pulpito per la predica (21). Nei reazionari è continua speranza ed ansietà di fauste notizie. Si vedono fuochi sui monti di Pistoia, verso Pisa e verso Lucca; si crede presa Genova, e si accendono subito anche in S. Miniato. Ben presto parve confermarsi la voce della capitolazione del Messena, talché il 6 giugno (1800) nella vasta e pittoresca campagna che si scorge da S. Miniato, nel Val [083] d'Arno di Sotto, bella Val di Nievole, «dovunque si volgevano gli occhi pareva un palazzo tutto illuminato». Indo solenne Te Deum perché, «si erano allontanati dalla Toscana questa setta d'iniquità e di ladri». Ma ecco il rovescio della medaglia. Sul più bello corre voce «che erano entrati i Francesi in Milano». Molti impauriscono; ed esclamano col nostro: «tornati i Francesi in Toscana guai a noi»! Poi venne la nuova ch'erano stati battuti, morti moltissimi, ed il resto serrati nel Milanese da non potere tornare indietro. I samminiatesi fedeli a Ferdinando III fidavano nel Conte Mari, «uomo dabbene». Speravano in lui, mentre, fra le altre, si ordinava al capitano della Piazza di S. Miniato, Prospero Badalassi, di fare scrivere nei suoi tre vicariati di S. Miniato, Empoli e Fucecchio 6 compagnie di soldati, 2 di cacciatori e 4 di semplici fantaccini «per tirare il confine della Toscana». Ma ecco un altro fulmine a ciel sereno. Cattiva nuova, nota il Diarista, si dice che il Generale Melas sia stato attaccato dal generale Buonaparte in tre punti, «e che ne abbia toccate: quanto prima si saprà di certo». Reca un po' di conforto sapere che il Buonaparte, ritrovatosi a Milano nel giorno del Corpus Domini, «fosse andato colla torcia a processione» e che strapazzò i giacobini, che avevano rizzato l'albero dov'era posta la «croce dei realisti. Anzi fece atterrare l'albero e rimettere la croce».
«Passarono dalla Scala 4 mila Tedeschi... che sono i primi dei 1000 ch'erano sotto Genova; sono sbandati e considerati come ribelli; perché, essendo sotto Genova, e gli conparve il nemico, e non fecero alcuna resistenza. Sono ignudi e ammalati, e dalla fame che avevano patito avevano mangiato perfino del cavallo, e tanto sudici che molti ne morirono, e sparati gli si trovarono ancora del cuoio in corpo». Ecco pel come si comunicavano le notizie in provincia. Siamo al 1 luglio: già da 15 giorni la vittoria di Marengo aveva coronato il Buonaparte di nuova gloria, e il nostro Diarista scriveva: «oggi sappiamo essere avvenuta una battaglia sanguinosa per tutte e due le parti tedesca e francese; lì 1° giorno il general Melas attaccò il general Bonaparte, e perse fra morti, prigionieri e feriti 15,000 tedeschi; il 2° giorno si riattacarono, e vi restarono 20 mila francesi, e poca quantità di tedeschi; il 3° giorno si [084] riattaccarono, e nessuno perse il suo posto; il nemoco era restato in maggior numero. Il generale Melas si sarebbe attaccato di nuovo colla poca armata che aveva; ma il general Buonaparte disse di cessare questa strage di uomini, e che credeva che già l'imperatore avesse sottoscritta la pace come avevano fatto in Campoformio». Il curioso si è che qui Napoleone è appunto quello che vuol cessare la strage guerresca, e che verso di lui, né ora, né dopo, il Diarista, sì arrabbiato coi giacobini, ha parole di biasimo, ma piuttosto di lode, tanto che sembra ch'ei non potendo avere il granduca, si adatti fin d'ora e volentieri al Generale. Del resto «in questi giorni, tempo di armistizio, seguì una gran babilonia di ciarle, che neppure potei pigliare tutti quei ricordi che sentivo, perché appena saputa qualche nuova, dopo pochi momenti non era più vera». Così possiamo spiegarci la strana versione della battaglia di Marengo, che non mi meraviglia punto, dacché pochi anni prima, nel 1796, perfino in Firenze, corse la voce stranissima che Napoleone fosse vinto, portato gravemente ferito nel palazzo dell'ambasciatore di Francia; e che quivi fosse morto, e sepolto nascostamente nel giardino! (22)
Dopo i poveri soldati imperiali sudici ed affamati passò dalla Scala una regina austriaca, la quale fuggiva anch'essa come loro. «Alli 11 Luglio, alle ore 8 di questa mattina, nota il Diarista solennemente, si seppe la nuova che alle 5 dopo pranzo sarebbe passata la regina di Napoli, che andava verso Firenze. Il popolo di S. Miniato scese alla strada maestra; i Fucecchiesi vennero con due bande... Dalle ore 5 ch'erano stati ordinati i cavalli, passò alle 10... lungo la strada maestra erano accesi grandi fuochi». Faceva un caldo insopportabile. Giunta alla Scala, quella maestà, (che descrive il Capponi per «una vecchiona di aspetto non bellamente maschile» (23)) cinque volte si affacciò alla carrozza, e riveriva; mentre «il popolo gridava evviva e batteva le mani. Nel tempo che facevano la muta dei cavalli, diede alla banda di Fucecchio sei rusponi, che formavano 35 scudi toscani, e ad una donna [085] della Scala, che le regalò un mazzetto di fiori, diede due rusponi. Le carrozze erano otto... mi è stato detto che aveva seco tutta la sua corte».
Il paese giubilava per l'imminente ritorno degli ostaggi, e per la pace; ed i giacobini erano sempre più in ribasso. Nel villaggio di Cigoli accadde anzi una scena comica in proposito. Un fervido giacobino, di nobile e antica famiglia, quel Simone Cardi, confinato già dalla Camera Nera per tre anni a Volterra, lo troviamo adesso nel luogo di origine de' suoi antenati, a tenere un discorso: «facendo conoscere che, sebbene si fosse dimostrato partitante francese, e andato a ballare intorno all'albero, e intervenuto ai festini patriottici, tutto avea fatto esternamente, e non internamente, e per non essere gastigato o mandato in esilio». Indi, finita così edificante parlata, «si mise in ginocchioni, baciò la croce e chiese perdono a tutti, e dichiarò di essere e di essere stato sempre fedele al suo principe». Comprava a tal prezzo l'impunità, come l'altro nobile, Carlo Gucci, quel dal club, era andato immune di pena forse per le valide protezioni, mentre il povero Vannini, colpevole solo di aver troppo credute le chiacchiere di quei giacobini da commedia, poco mancò non fosse accoppato alla gogna. Ma qual berlina era peggiore, quella del Bargello, o quella volontaria del nobile di Cigoli?
Di nuovo passano dalla Scala i Francesi (1801), e con loro nuovi tormenti e nuovi tormentati. Se i Russi e gli Austriaci picchiavano i vetturali, questi «vicino a Empoli ammazzano due contadini»; ma oramai l'anarchia è in via di cessare; una mano ferma e risoluta regola la disciplina; per questo omicidio vengono trattenuti in Empoli duemila soldati, in attesa di ordini da Firenze; indi ne vengono fucilati due, e legnati tre o quattro. «Non vi son fatti da prender memorie se non miseria; il grano di raccolta costa L. 35 e 36 il sacco; l'olio 140 lire la soma; non è vile che il vino, essendone stato in abbondanza; vale L. 11 e 12 la soma il ragionevole».
Passa il cadavere di Pio VI, «alle 9 del mattino. Nella notte era stato nella chiesa di S. Romano, nella quale avevano tirato il carrettone colla cassa, e quei frati con alcuni preti di Castelfranco di Sotto avevano cantata la messa in requiem». Il carro colla cassa «era tirato [086] da quattro cavalli e coperto di tele incerate; il seguito consisteva in due carrozze, ov'erano uno o due cardinali, un vescovo ed altri segretari con servitori, ed era scortato da 10 dragoni a cavallo». Infine, a dì 23 maggio del 1804, il Diarista può appuntare: «per lettere, gazzette e chiacchiere si dice assolutamente che il Buonaparte sarà re di Francia».

VI
D'ora innanzi il manoscritto che son venuto spigolando, diviene meno importante. In quell'epoca napoleonica di grandi battaglie, di regni creati o distrutti, di prefetti, di gendarmi, di soppressioni di conventi o di coscrizioni, l'autore poco forse si raccapezzava, eppoi dev'aver lasciato senz'altro e forse anche riposto il suo lavoro, senza più riprenderlo, o disgustatosene o distolto da altre cure. Le ultime pagine sono quasi appunti. Si nota la partenza della regina di Etruria «che è stata un atto di tragedia»; una festa celebrata in S. Miniato nel 1808, quando il padre Aglietti francescano «fece un discorso a onore e lode dell'immortale Buonaparte... e fu data una rappresentazione gratis al nuovo teatro». Ricorda che una commissione di cospicui cittadini andò a Firenze ad implorare «un sottoprefetto, la posta e la permanenza dei conventi, essendo S. Miniato una città povera», e che fu esaudita solo in parte la domanda; ma i conventi vennero o permutati o soppressi. E qui la enumerazione delle soppressioni e delle permute, simili a quelle che Napoleone faceva delle nazioni e degli stati. Segue una notizia che forse può interessare i frugatori di archivi e di biblioteche. Il 21 giugno 1808 «il governo ha mandato un prete ch'è pubblico lettore a Pisa, a vedere se nelle librerie di questi conventi vi fossero libri di qualche valore o importanza storica, come sarebbero descrizioni di guerre successe, memorie di monarchi, fatti di principi. Ha fatto lo spoglio, e messi in disparte quelli che ha creduto, ne ha mandati due barrocci al Prefetto».
Vengono per ultime le feste del 15 agosto «per l'onomastico del grande eroe, del magnanimo imperatore Buonaparte». Cominciate, al solito, col Te Deum, terminano col veglione al Teatro, e la visita del Prefetto di Livorno, dal quale S. Miniato, con strano sovvertimento delle condizioni [087] geografiche, delle tradizioni e delle storia, allora dipendeva. Il prefetto fece pagar cara la visita; celebrò in Cancelleria solennemente la triste cerimonia della coscrizione, e si portò via tredici giovinotti.
Al Diario segue una lunga poesia contro i giacobini, primo ed ultimo pensiero, e quasi l'incubo del Cronista. E' una specie d'imitazione e di parafrasi del Dies Irae, storpiato per la circostanza; di sopra ne riferimmo un piccolo saggio; eccone ora il principio e la fine:

Die illa (sic), dies illa
Giscobini vanno in villa
Nena, Assunta e la Sibilla.
Se ne van per l'aria scura,
Che son pieni di paura
Di trovarsi in sepoltura.
............
Gran bontà della natura,
Che la pera è già matura,
Or vi vedo in sepoltura.
Lacrimosa dies illa
Al sovrano il cuor ne brilla
Di mandarvi tutti in villa,
Dove diace la Sibilla.

Faccio grazia volentieri delle allusioni e delle invettive personali, dalle folgori né olimpiche né poetiche di questo anonimo vate da strapazzo, pago di segnalare come fra tanti fatti, persone, sentimenti e circostanze ricordate o rivissute in queste pagine, la repugnanza, l'aborrimento contro i giacobini prevale e campeggia sempre dal principio sino alla fine, vivace ed irrefrenabile.
Firenze
Giuseppe Rondoni




NOTE
(01) Cosenza, Aprea editore, 1891. [Nota 01, p. 64]
(02) Nuova Antologia, 16 genn. 1892. [Nota 02, p. 64]
(03) Mi venne fatta conoscere dall'egregio sig. Antonio Vensi di S. Miniato, indefesso raccoglitore di memorie paesane, il quale ne trasse anche una copia, e mi fornì utili schiarimenti, talché ora gli debbo pubbliche grazie. [Nota 03, p. 64]
(04) Lo Zobi (Storia civile della Tosc. to. II) limitava infatti ai centri principali il racconto; il Brigidi (Giacobini e Realisti o il Viva Maria, Siena, 1882) dava notizia di qualche centro secondario; ma del senese e dell'aretino principalmente; il Lumini (op. cit.) illustra in special modo le vicende di Arezzo; il Masi (op. cit.) aggiunge notizie nuove su Livorno. Naturalmente A. Francetti nel suo importante lavoro Storia d'Italia dopo il 1789 non poteva indugiarsi sui particolari della reazione toscana. Anche il Cantù nelle Corrispondenze di Diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia, non offre particolari in proposito. [Nota 01, p. 65]
(05) V. Hugo, I Miserabili, III, 1. [Nota 02, p. 65]
(06) Da loro, ai quali rendo le debite grazie, e dal sig. Vensi ho attinto anzi queste notizie. [Nota 01, p. 66]
(07) Marmont, Memoires, to. 1, p. 194-195. [Nota 01, p. 67]
(08) Zobi, op. cit. III, p. 188. [Nota 02, p. 67]
(09) Directoire et Origines des Bonapartes, to. 1, p. 347-348 e 420. [Nota 03, p. 67]
(10) Storia Genealogica della Famiglia Bonaparte scritta da un Samminiatese, p. 91, Firenze, 1846. Era il nobile sig. Damiano Morali. Il canonico Filippo morì il 24 dicembre del 1799, istituendo eredi universali i poveri della sua parrocchia dei SS. Michele e Stefano, e quelli della parrocchia di S. Lucia a Calenzano. [Nota 4, p. 67]
(11) Zobi, Op. cit. III, p. 188. Protocollo delle Deliberaz. comunali, 28 luglio 1796; e 31 agosto dello stesso anno. Arch. del Com. di S. Miniato. [Nota 1, p. 68]
(12) St. genealogica sopra cit. Gerini, Memorie di Lunigiana, e Passerini, Le Armi dei Municipi Toscani illustrati, Firenze, 1864, p. 105; e Arch. Stor. It., Nuova Serie, to. III, P. II, e to. IV. P. I. V. anche to. X. P. I.. Replicò l'Anonimo con un'Appendice alla Storia genealogica, Firenze, G. Mariani, 1862. [Nota 2, p. 68]
(13) Il documento ov'è ricordato Guidoletto è una pergamena autentica che si conserva nella nobile casa Ansaldi di S. Miniato. Il prop. G. Conti, il quale si proponeva d'illustrare con documenti la storia genealogica dei Buonaparte, trascrisse due epigrafi mortuarie, ch'ei dice sussistevano nella cattedrale samminiatese: ecco la 1a: Jacobus de Bonapartibus a S. Miniate – Nobiliis miles atque Pretor – qui ibiit XV Maii MCCXCI – Hic jacet. La 2a, nell'Arch. del Capitolo, è la seguente: Sepulcrum vetus a majoribus de Bonapartibis – Suis heredibus relictum. A.D. MCCCXII. Il sepolcro fu restaurato nel 1709 dal proposto Francesco Buonaparte, che faceva apporre una nuova epigrafe, ed infine dal prop. G. Conti nel 1864, con sussidi ottenuti dallo imperatore Napoleone III (Da manoscritti del prop. G. Conti). La tomba è a piè del presbiterio, nel primo luogo di onore della cattedrale. Nel Libro dei Ribelli del Com. di S: Miniato, all'anno 1431, è un Lionardo di Antonio di Moccio Buonaparte (G. Conti, Storia del SS. Crocifisso. Appendice, p. 103). Inoltre nella Riforma degli Statuti di S. Miniato del 1494 è ricordato fra gli statutari Jacobus Baptista Vectoris Bonaparte, il quale fu pure fra quelli che compilarono i Capitoli del Mulino del Comune del 1498, e tra i riformatori del 1503 (Arch. di Stato di Firenze. Statuti di S. Miniato, n. 634); e fra le carte della Curia vescovile abbiamo una scritta di affitto di una casa fra le monache di S. Paolo a Pier Francesco Buonaparte, stipulata il dì 8 marzo 1587 (Filza di Atti contenziosi del 1593, n. 96); una lettera di Jacopo di Giovanni Buonaparte, del dì 12 luglio 1588, ed un atto di presentazione alla chiesa di Calenzano emesso dal sig. Giov. Batt. Buonaparte sotto il dì 16 Aprile 1766 (Atti, Filza del 1766, n. 8). Negli Statuti sopra citati i Buonaparte sono della parte Podiighisi, essendo allora la città divisa in due parti; proprio dove abitava il canonico Filippo. [Nota 1, p. 69]
(14) Un Gius. Buonaparte scriveva da Ajaccio (20 Aprile 1703) al canonico Carlo di S. Miniato: «derivar noi senza fallo dallo Stato del serenissimo Granduca... il ceppo è lo stesso, e noi procediamo dallo stesso fonte, come so per fama dai miei antenati». (Appendice alla Storia genealogica, p. 36). Carlo, padre di Napoleone, addottoratosi a Pisa, veniva alla laurea qualificato per nobile patrizio fiorentino, samminiatese e di Aiaccio (Appendice cit. p. 166). Vero è che Giuseppe nella supplica al Granduca del 1789, crede il suo ramo derivato da Sarzana; ma là trasferitosi dal fiorentino (Stor. gen., p. 90-92 e p. 171); e P. Vico, Genealogia storica, in fine. Del resto oggi il Lanfrey (Hist. de Napoleon, T. 1), ed il Taine, Origines de la France contemp., fanno samminiatesi i Buonaparte. [Nota 2, p. 69]
(15) Scritti editi e inediti, I, p. 20. [Nota 1, p. 70]
(16) Documenti raccolti dai signori A. Vensi e Giov. Turri. Deliberaz. del Municipio nell'Arch. Com. [Nota 1, p. 72]
(17) Anche in Empoli si tolsero gli stemmi degli antichi potestà, e il chiavistello ch'era appeso sulla porta del pretorio, e che in tradizione narrava essere stato dagli Empolesi rapito dalla ròcca di S. Miniato come trofeo di vittoria. Era il chiavistello cantato da Ippolito Neri nel suo poema La Presa di Samminiato. Ved. Lazzeri, Storia di Empoli, Empoli, 1873. [Nota 1, p. 74]
(18) E' una campagna boscosa nelle adiacenze di S. Miniato. [Nota 2, p. 74]
(19) Ho detto tutta la regione circostante, perché sino dal 4 maggio fatti consimili avvennero in Empoli, Fucecchio, S. Croce, Castelfranco, Pontedera, Lari, S. Gemignano, Pistoia e Prato. Si credevano prossimi i Tedeschi; ed in Empoli si fece una processione, e furono collocati di nuovo ai soliti posti le armi del Granduca, e il noto chiavistello. Ved. Lazzeri, Op. cit., p. 70 e segg., nonché il nostro Diariasta, il quale sembra attribuire il moto «ad una ciarla aparsa per la campagna dai contadini... per potere riavere i loro schioppi», sequestrati pochi giorni prima. [Nota 1, p. 75]
(20) Lo Zobi, che non parla affatto dei moti di S. miniato, enumerando gli ostaggi delle varie città toscane, omette fra quelli di S. Miniato un Morali (to. III, nota a p. 314) [Nota 1, p. 78]
(21) L'abbiamo a stampa, ed eccone il titolo: Sentimenti del prete Cristiano Baldacci Priore di Pino, Firenze 1880. E' un'invettiva contro i giacobini e le giacobine, alle quali rimprovera come inaudita sfacciataggine il vestire alla guigliottino. [Nota 1, p. 82]
(22) Zobi, Op. Cit., III, p. 198-199. [Nota 1, p. 84]
(23) Scritti, editi e inediti, I.

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